Banca Nuova BPVi e fondi Servizi, Il Fatto: fonte presunta Antonio Li Causi rischia 24 anni con i cronisti Bonazzi e Borzi, ma la prova resta in cassaforte

636
Servizi e fondi in Banca Nuova BPVi: Nicola Borzi e Francesco Bonazzi. autori dell'ìnchiesta
Servizi e fondi in Banca Nuova BPVi: Nicola Borzi e Francesco Bonazzi. autori dell'ìnchiesta

In una cassaforte della Procura di Roma è custodito un file, denominato “file saggio”, che contiene l’elenco di chi lavora per i nostri Servizi segreti. Ed è coperto dal segreto di Stato. Non si tratta di una semplice lista di nominativi: l’elenco, il file saggio, è infatti una “prova” nel fascicolo che accusa due giornalisti – Francesco Bonazzi e Nicola Borzi – proprio di rivelazione del segreto di Stato. Oltre i due cronisti, tra gli accusati, c’è un funzionario di banca, Antonio Li Causi che, secondo la Procura di Roma, sarebbe la loro fonte. I tre rischiano una condanna fino a 24 anni di carcere.

Bonazzi e Borzi, tra il 15 e il 17 novembre 2017, pubblicano una serie di scoop sui loro rispettivi giornali, La Verità e Il Sole 24 Ore, che imbarazzano i nostri Servizi segreti. Raccontano dell’esistenza di 1.600 operazioni bancarie, per circa 642 milioni, effettuate tra il 2009 e il 2013, nei conti di Banca Nuova, che appartiene al gruppo della Banca popolare di Vicenza. E proprio nella filiale romana di Banca Nuova, raccontano, hanno i loro conti i funzionari dei servizi e della Presidenza del Consiglio.

La Procura di Roma apre immediatamente un fascicolo e delega alla Guardia di Finanza, in meno di 48 ore, il compito di perquisire i cronisti. Si cerca la talpa che ha rivelato loro l’informazione e, come abbiamo anticipato, secondo la Procura si tratta di Li Causi. E qui scatta il corto circuito.

Per difendersi, Li Causi chiede di poter acquisire una copia dei documenti che lo accusano, incluso il file saggio ma, secondo la Procura, non può: il file è coperto dal segreto di Stato. Secondo le norme, risponde la Procura, Li Causi può solo prenderne visione. La norma, però, se sembra perfetta per un documento cartaceo, non mostra la stessa efficacia per un documento informatico che, per sua natura, è fisicamente composto da molti dati e, per essere analizzato, ha bisogno d’essere acquisito, più che visionato. E il difensore di Li Causi, l’avvocato Gioacchino Genchi – un passato come funzionario di polizia, collaboratore di Giovanni Falcone, poi consulente di molte procure proprio per indagini informatiche – pretende di acquisire copia del documento che intende analizzare per tutelare il suo assistito.

D’altro canto, però, la Procura di Roma non intende violare la norma (articolo 42, comma 8, legge 127 del 2007) che consente a Genchi soltanto una visione, alla presenza della polizia giudiziaria. Genchi ha già eccepito una volta, e con successo, la nullità della richiesta di rinvio a giudizio proprio per non aver potuto aver copia dell’atto: il gup Claudio Carini, due mesi fa, ha autorizzato il rilascio della copia del file secretato e disposto la nullità della richiesta del rinvio a giudizio. Il pm Sergio Colaiocco, nella nuova chiusura d’indagine, ha però nuovamente rigettato la richiesta di Genchi. E così Li Causi ieri non s’è presentato all’interrogatorio. La vicenda è in una sorta di stallo. Toccherà al Gip, nei prossimi mesi, stabilire se il segreto di Stato possa spingersi fino a una tale compressione del diritto della difesa, dando ragione alla procura e al pm Colaiocco, oppure confermare la decisione, già presa due mesi fa, e consentire la copia dell’atto.

Se i due cronisti, con il loro scoop, intendevano gettare una luce sui conti dei nostri servizi, bisogna ammettere che l’operazione è riuscita perfettamente al contrario: sono loro a essere finiti sotto la lente della Procura.

Insieme alla presunta talpa che, però, almeno per il momento, non può difendersi come ritiene. Infine, c’è da registrare un ulteriore paradosso: l’elenco dei nostri 007, ora blindato nella cassaforte del procuratore di Roma, non pare avesse un’analoga blindatura all’interno dei server di Banca Nuova. Si trattava infatti di un comune “estratto conto”, per il quale non c’era un server dedicato, al quale ogni dipendente della banca poteva accedere da qualunque postazione dell’istituto di credito.

di