Coronavirus, Ilaria Capua a Linkiesta: “epidemie derivano dalle azioni dell’uomo sull’ambiente”

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Secondo la virologa di fama internazionale, occorre un approccio nuovo al concetto di salute e malattia, basato sul rapporto (più rispettoso) nei confronti dell’ambiente e sullo studio approfondito dei dati

di Dario Ronzoni da Linkiesta

Almeno 80mila contagi in tutto il mondo (stima della Johns Hopkins University), un allarme diventato globale, misure drastiche messe in campo in più Paesi – quelle dell’Italia sono in linea con l’obiettivo del contenimento, ha rilevato Hans Kluge, direttore regionale per l’Europa del Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma di fronte alla vorticosità delle notizie e delle operazioni, manca ancora una riflessione. È quella che fornisce la virologa di fama mondiale Ilaria Capua, in aggiunta al suo contributo prestato a tutti gli attori in questione (anche della politica) per affrontare la situazione. «Questa epidemia ha messo in luce come – cosa che sapevamo già – in questo mondo siamo tutti interconnessi», spiega. Un fatto che impone «di rivedere fin dalla base il nostro concetto di sano e di malato, e anche il nostro modo di affrontare la cura». La soluzione, che ribadisce nel suo ultimo contributo per “Questione di merito”, libro di Maria Cristina Origlia in uscita per Guerini, è quella che definisce come “salute circolare”.

In cosa consiste?
Come diceva il matematico e meteorologo americano Edward Lorenz, «Un battito d’ali di farfalla della giungla amazzonica può provocare un uragano sull’Europa». Una massima che è molto attuale, se si pensa che il coronavirus fino a poco tempo fa si trovava nella giugla cinese e circolava indisturbato nella popolazione di pipistrelli locali. È stato il nostro intervento, l’azione umana, a tirarlo fuori da quello stato. Molti animali vengono catturati e venduti per essere consumati secondo alcuni costumi tradizionali. Un fatto che avviene tuttora e che è avvenuto senza che ce ne accorgessimo per decenni. Cosa è cambiato? Le megalopoli.

In che senso?
Se il contagio fosse rimasto limitato a un villaggio sperduto nella foresta – cosa che avviene, del resto – non si sarebbe propagato e, soprattutto, non sarebbe diventato una minaccia globale. Sarebbe rimasto confinato a un gruppo di individui e, con ogni probabilità, si sarebbe risolto nel gruppo in questione. Le megalopoli hanno amplificato l’area del contagio. La globalizzazione l’ha estesa a tutto il pianeta – come pensiamo che sia arrivato il virus in Europa? Con l’aereo –e l’effetto domino che abbiamo sotto gli occhi, a livello sociale e soprattutto economico, è immenso. Basti pensare che le emissioni di Co2 in Cina negli ultimi tempi si sono ridotte dal 15 al 40%. Si sono bloccati i trasporti, si sono fermate le industrie. Le conseguenze sono enormi.

E in questo quadro a cosa può servire un approccio legato alla salute circolare?
Ci si basa su un concetto base: se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani. Lo si vede con le conseguenze, non volute, dell’impiego su larga scala dei pesticidi, che sono andati a danneggiare la popolazione di api e farfalle. Queste ricadute sull’ambiente raggiungono alla fine, la nostra salute. Perché – e questo è il secondo concetto fondamentale che dovrà diventare chiaro a tutti gli stakeholder del settore– noi viviamo in un ambiente chiuso. Come se fossimo un acquario. La nostra salute dipende per il 20% dalla predisposizione genetica e all’80% dai fattori ambientali. La cura deve studiare, oltre all’organismo in questione, anche il contesto.

Salute circolare significa anche ambientalismo, allora.
Esatto. Sono due aspetti che, ormai, vanno considerati nello stesso quadro. La salute delle persone dipende da come si vive e dove si vive, senza dimenticare che tutto è collegato. Adesso lo vediamo nella sua forma più lampante con il coronavirus. Ma ci sono fenomeni altrettanto gravi, di cui si parla poco e in forma discontinua.

Ad esempio?
I superbatteri. O meglio, i batteri killer. Sono forme che, senza volerlo, abbiamo selezionato nel tempo abusando di antibiotici negli allevamenti intensivi. Hanno sviluppato forme di resistenza, si sono propagati nell’ambiente e sono all’origine di infezioni che non si riesce a debellare. Ha presente le “infezioni ospedaliere”? Possono avvenire dopo le operazioni chirurgiche. O a volte possono riscontrarsi negli impianti di protesi. Sono un problema reale e sono conseguenza indiretta del nostro abuso di antibiotici.

Ma tornando al coronavirus: come ha reagito a suo avviso la comunità internazionale?
C’è stato senza dubbio un aspetto positivo: la crisi ha vinto il primato della condivisione delle informazioni. Questa è una delle premesse fondamentali per sviluppare un sistema basato sulla salute circolare. E mi riferisco a una maxistruttura per condividere e studiare i Big Data. Servirà ad analizzare le variabili – ambientali e non solo – di tutto il ciclo della salute. Faccio un esempio: al momento non è chiaro cosa provochi lo sviluppo del diabete nei pazienti pre-diabetici. Uno studio che presti attenzione alla totalità delle loro azioni, come gruppo, (ciò che mangiano, ciò che bevono) permette di individuare i trigger ambientali che li fanno diventare diabetici. E, se possibile, spostare più in là l’evoluzione della patologia.

Sarebbe un cambio di paradigma.
Esatto.

Per concludere: come giudica la confusione tra governo, regioni, aziende sanitarie locali?Perfino gli scienziati, a volte, sono apparsi
in contrasto tra di loro sull’analisi del problema del coronavirus.

Preferisco evitare di esprimere giudizi. Dico solo che, in un momento come questo, occorre evitare personalismi e impegnarsi, piuttosto, a collaborare tutti insieme. Io, per quello che posso, lo faccio, mettendomi a disposizione.