Dal personale sanitario un commento al Vangelo che vale più di un’omelia.

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Mentre ognuno di noi attraversa come può l’assurdo deserto di una quaresima a dir poco inedita, io rifletto, prego, leggo, ascolto e osservo.

In questo frangente matura dentro di me un bisogno di restituzione. Devo risarcire. Se ripenso l’evoluzione del mio ministero presbiterale, riconosco con gratitudine il peso che hanno avuto i fratelli laici. La forma e lo stile del mio essere parroco, oggi, dipende molto da loro. Senza nulla togliere ai tesori che mi sono stati consegnati dai bravi formatori in seminario, gli anni trascorsi a stretto contatto con gli amici dell’Azione Cattolica sono stati ancora più decisivi nel mio cammino di fede.

Insieme a loro ho scoperto l’espressione – di matrice paolina – “vita secondo lo Spirito” (Rm 8,5; Gal 5,25), un flusso e un dinamismo che non è prerogativa dei chierici o dei monaci: la sorgente da cui scaturisce è il battesimo. Il laico credente che ogni giorno indossa il camice del medico o dell’infermiere, che sopporta il peso del lavoro dentro una fabbrica o seduto in ufficio, che insegna a mandrie ingovernabili di ragazzi o che guida per ore interminabili un mezzo di trasporto, proprio lui o lei, che magari hanno una relazione di coppia da alimentare, figli da accudire, mutui da pagare, loro, i laici, non sono spiritualmente inferiori a me, che sono parroco.

Nella vita di queste figure, lo Spirito non agisce in modo più debole. Un genitore, che trasmette ai suoi figli il proprio bagaglio di fede, avrà sicuramente a disposizione un vocabolario ben diverso dagli strumenti concettuali di un prete, che ha studiato teologia; ma le sue parole non sono meno importanti delle mie.

«Mi raccomando, reverendo, procuri di star bene, perché in questo momento abbiamo un grande bisogno di lei». Il coronavirus ispira ai miei parrocchiani questi accorati appelli. È molto toccante per me l’affetto della gente. È un grande regalo! Eppure sento che devo risarcire.

In quest’ora tremenda la comunità cristiana non ha bisogno soltanto dei pastori: è necessaria la testimonianza corale di tutti i battezzati.

Gesù di Nazareth non era un sacerdote; frequentava con discrezione il tempio e la sinagoga; ha potuto abitare, invece, per diversi anni, uno spazio altamente profano: la bottega del falegname.

Essere cristiani significa sottomettersi al grande principio dell’incarnazione: “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). La vita, nella sua ruvida concretezza, è il luogo teologico in cui la Parola di Dio prende corpo e acquista una voce.

In questo momento, nella mia testa scorrono le immagini di un personale sanitario stremato, che sta facendo turni di lavoro massacranti per salvare chi è in pericolo, mettendo quotidianamente a repentaglio la propria incolumità. Dubito che questa loro consegna sia meno eucaristica della messa che celebro a porte chiuse. Il commento al vangelo che ci offrono, esercitando il loro mestiere, non può valere meno di un’omelia.

I turni massacranti del personale sanitario sono un commento al Vangelo che non vale meno di un’omelia.

Dubito che le nostre case siano luoghi meno adatti di un oratorio per la catechesi dei più piccoli, o per trasmettere a ragazzi, adolescenti e giovani la parola generativa dell’adulto. Magari tutto ciò avviene tra le facili isterie dei giorni feriali, quando la pazienza diventa una virtù impraticabile. Ma soltanto qui può accadere la “vita secondo lo Spirito”; è questa la carne che attende l’impasto con il “Logos”.

Il tempio adesso è chiuso; l’assemblea non si raduna. Ma il Signore ha radunato nelle aule domestiche le cellule vitali della sua “ecclesìa”. E fuori dalle case, uomini e donne – diversamente credenti e praticanti – stanno donando il corpo e il sangue per la salvezza degli altri. Quest’anno il mio cammino quaresimale verso la Pasqua prosegue pensando a loro. Grazie a loro.

*Abate di Bassano del Grappa