Dice dunque il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, a proposito della app di tracciamento dei contagi: “Sarà in funzione a maggio. Quando? A maggio, può essere anche il primo…”. Vittorio Colao, il commissario alla ricostruzione, però avverte: “Se non parte entro maggio servirà a poco”. E il premier Conte? Nell’ultima conferenza stampa in cui ha illustrato come intende far ripartire l’Italia, di app non ha parlato proprio. Forse per il timore di scivolare sull’annuncio di una tempistica che, al momento, rimane vaga. Troppo vaga.
Qualcosa, però, si è in grado di anticipare: la Fase 2 si apre ufficialmente il 4 maggio, e per quel giorno la app Immuni, scelta dalla task force di 74 esperti e sviluppata da Bending Spoons, non sarà pronta. Eppure averla a disposizione è uno dei requisiti riconosciuti per affrontare in sicurezza la riapertura del Paese e limitare i rischi di nuovi focolai.
Lo stesso Comitato Tecnico-Scientifico, nell’ultimo report studiato da Conte per scrivere il decreto della Fase 2, sostiene che “l’utilizzo diffuso di misure di precauzione e il rafforzamento delle attività di tracciamento del contatto” possono ridurre in modo sufficiente i rischi di trasmissione. Una fonte ministeriale a conoscenza del “dossier Immuni” spiega a Repubblica che per vedere la app anti-Covid scaricabile sui telefonini e pienamente funzionante toccherà aspettare ancora molto: “Se tutto va bene, una prima versione sarà disponibile tra 7-10 giorni. E serviranno almeno due settimane poi per testarla”. Bisogna aspettare.
La luna di miele da un milione di euro…
E pensare che tutto era cominciato con una di quelle coincidenze che hanno il sapore dell’amore a prima vista: ancora prima che il governo, attraverso il ministero per l’Innovazione retto da Paola Pisano, facesse la sua call per “una app di tracciamento”, Bending Spoons aveva già fatto una donazione da un milione di euro alla Protezione Civile. Affinità elettive, sostengono ironicamente i maliziosi. “Era l’11 marzo, il 24 il ministero avrebbe fatto la sua call”, ha spiegato l’ad Luca Ferrari al Corriere della Sera, senza soffermarsi però sul dettaglio che l’app di tracciamento “Immuni”, al momento di fare quella generosa donazione, era allo studio dell’azienda già da parecchie settimane e che, quindi, erano assai probabili futuri rapporti con lo Stato quando non direttamente con la Protezione Civile (il commissariamento era ancora di là da venire). “Da anni come società doniamo una parte dei profitti in beneficenza. Quest’anno, vista l’emergenza e il record delle nostre vendite, abbiamo deciso di fare una donazione più generosa del solito”, ha spiegato ancora Ferrari.
Fatto sta che il 17 aprile, pur senza alludere alla donazione, in pochi si sono detti sorpresi quando si è scoperto che ad aggiudicarsi l’assegnazione della fornitura – a titolo gratuito – era stata proprio Bending Spoons. Tra i più entusiasti, Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Salute Roberto Speranza e membro dell’affollata task force chiamata alla difficile scelta. Per Ricciardi quello sarà uno degli strumenti chiave per la guerra al Covid-19: “Potrà sostituire l’indagine epidemiologica fatta manualmente dai dipartimenti di prevenzione. Potremo avere informazioni precise riguardo ai luoghi frequentati dal malato e alle persone incontrate con estrema precisione. Spesso durante le indagini epidemiologiche i malati si dimenticano qualcosa”. L’app no.
La prima crisi
Ricciardi non era l’unico a riporre grandi aspettative nella app. Conte, Arcuri, Speranza erano tutti concordi nel dire che una parte della buona riuscita della Fase 2 sarebbe dipesa da Immuni. In sintesi: serve a identificare le persone contagiate dal virus il prima possibile, anche quando sono asintomatiche o hanno sintomi lievi. In modo da poterle mettere in quarantena. Contemporaneamente serve a tracciare i contatti che hanno avuto le persone contagiate attraverso un sistema di tracciamento: viene chiesto a tutti gli utenti di rispondere a un questionario giornaliero sullo stato di salute, in modo da avere una sorta di diario clinico.
Tutto bene, quindi. O almeno così sembrava. Il commissario Arcuri il 15 aprile scorso ha firmato il contratto con la società (che cedeva gratuitamente l’applicazione) e tutti hanno pensato che fosse una questione di giorni, e che il principale problema sarebbe stato quello di trovare un numero sufficiente di tamponi per “far funzionare” il sistema. E invece.
“E invece al momento – spiega uno degli uomini della task force – la app non è pronta”. Com’è possibile? “Il pubblico ha i suoi tempi…”, dicono a mezza voce persone vicine al dossier Bending Spoons lasciando intendere che le cose, nella trasmissione delle informazioni tra Governo e azienda non si sono messe benissimo. I tempi si sono allungati e non è ancora chiaro quando si sbloccheranno.
Il doppio sistema
La questione si muove lungo due linee: quella tecnica e quella politica. In un primo momento Bending Spoons, con il via libera del Governo, aveva scelto la strada tecnologica indicata da un consorzio europeo, che prevedeva il cosiddetto modello centralizzato. Tutti i dati degli utenti venivano raccolti – seppur in modo anonimo – in una centrale unica, che avrebbe, volta per volta, inviato le notifiche agli altri utenti che avevano incrociato il telefonino di un positivo. Una scelta ritenuta, però, troppo poco “privacy oriented” dai due colossi Google e Apple (che ha come slogan “what happens on your phone stays on your phone”) che infatti spingevano per un modello decentralizzato dove i dati non sarebbero usciti dai dispositivi dei singoli utenti, demandando a questi apparecchi il compito di interagire tra di loro.
La scelta decentralizzata aveva dunque un evidente pro, quello di proteggere in maniera più efficace la privacy, e un robusto contro, quello di rendere praticamente impossibile la realizzazione un sistema di sorveglianza centralizzato da parte del governo.
Per questo la maggior parte dei paesi europei e mondiali – vedi Francia, Gran Bretagna e Australia – ancora oggi preferisce la scelta della centralizzazione: la compromissione parziale della privacy viene considerata un prezzo accettabile da pagare a fronte di una maggiore facilità nel ricostruire la catena dei contatti dei positivi e avere dunque un quadro molto più preciso di intervento per i dipartimenti territoriali di medicina di prevenzione.
In nome della privacy, invece Bending Spoons ha fatto cambiare rotta al governo italiano, anche sulla base del fatto che maggiore è la privacy garantita maggiore sarà la diffusione della app e dunque migliore il suo funzionamento (secondo alcune stime serve che almeno il 60 per cento della popolazione la scarichi). A ben vedere però, la privacy è però soltanto una delle motivazioni alla base della scelta di Bending Spoons, e probabilmente nemmeno la principale. Che appare essere un’altra, più tecnica e relativa alle difficoltà di far girare l’applicazione – nella sua versione centralizzata – con i sistemi di Google e, soprattutto, Apple. Cioè praticamente su quasi tutti i telefoni. In corsa è stato dunque deciso di adeguare il sistema di funzionamento ai desiderata dei giganti della rete. Ma per completare il passaggio c’è bisogno di tempo.
La guerra dei server
Quanto? Da Bending Spoons dicono che stanno lavorando e sono a buon punto. E che a dettare i tempi, però, non sono loro. Anche perché, superato il bivio relativo al tipo di sistema da adottare, scelti gli attributi che caratterizzeranno, quando ci sarà, “Immuni”, è necessario adesso che il Governo assuma delle decisioni strategiche non di secondo piano. La prima delle quali è: a chi affidare il server sul quale arriveranno i dati crittografati inviati dai telefonini degli italiani. Anche col modello decentralizzato, infatti, il server rimane fondamentale.
E’ certo solo che sarà in Italia e verrà gestito da aziende di Stato: una potrebbe essere Sia, la società controllata da Cassa e depositi e prestiti, che ha in carico i dati informatici delle banche, a partire dalle carte di credito. L’altra opzione è Sogei, controllata al 100 per cento dal Mef. “Non si sa ancora nulla – dicono i tecnici – Se non si mettono d’accordo, non si può nemmeno pensare di partire. Perché senza server non esiste l’applicazione”.
La Campania vuole smarcarsi
Ma, come si diceva all’inizio, senza applicazione la Fase 2 è a rischio. E così come è successo sin dall’inizio del lockdown anche in altri ambiti relativi alle forniture, in assenza di indicazioni precise da parte del governo, le Regioni cominciano a pensare di smarcarsi. E fare da sé. La prima a muoversi è stata la Campania. Che in queste ore sta seriamente considerando di partire il 4 maggio con un’applicazione già pronta e testata (è già stata scaricata da 40mila persone). Si chiama sm-covid-19, è stata messa a punto da una software house di Salerno, utilizza un modello centralizzato – “l’unico efficace”, dicono – e a quanto pare gira bene sia su Android sia su Ios. E’ molto simile a quella inglese tanto ed è stata richiesta dal governo del Lussemburgo. “Nei giorni scorsi – spiega Stefano Piotto, il Ceo dell’azienda che la produce – abbiamo pubblicato le nostre specifiche tecniche chiarendo che il nostro sistema è interoperativo e che quando Immuni sarà pronta se ci sarà chiesto trasferiremo tutti i dati, ovviamente anonimi, che nel frattempo avremo raccolto”.
Insieme alla localizzazione in Italia dei server, l’altra condizione posta dal Governatore Vincenzo De Luca, è stata proprio l’interoperatività con Immuni nel caso in cui un giorno da Roma riuscisse davvero ad arrivare. Anche se per ora, quel giorno, appare piuttosto lontano.