Lentamente stiamo entrando nella Fase 2. Avremmo sperato, forse, di poterlo fare con maggiore velocità, ma la condizione epidemiologica generale non consente di esagerare, pena una retromarcia che sarebbe tanto drammatica quanto dannosa.
Usciamo dunque dalla quarantena senza fretta, quasi storditi e timorosi di scoprire come sarà il “covidico”, l’era segnata dal Covid-19, questa malattia che ancora non conosciamo bene, ma che, in soli due mesi, si è portata via quasi 30mila italiani.
Rispetto al futuro ci sono tante ipotesi, poche certezze. Quello che è sicuro è che dobbiamo attraversare insieme queste tre crisi che stanno mettendo in ginocchio il Pianeta: la crisi sanitaria, quella economica e quella sociale.
Molto dipenderà dagli scienziati (a cominciare dal possibile vaccino), dai politici (innanzitutto per rendere la crisi economica meno devastante e ridisegnare un mondo più sostenibile), da noi stessi chiamati a gestire il dato emotivo coniugato da una buona dose di razionalità.
Le mascherine sono uno dei simboli di questi giorni in cui torniamo ad abitare luoghi che per molte settimane sono rimasti vuoti. Sono lo strumento principe per proteggere noi e gli altri da possibili contagi, un segno di attenzione rispetto a chi ci è vicino. La mascherina, però, può anche essere il segno della minaccia che incombe, dell’altro visto come pericolo da tenere lontano, dell’altro che faccio fatica a riconoscere sotto quella striscia di panno sanitario. Ecco, questo approccio dipende da noi. Tocca a noi decidere se l’altro è un pericolo che mi fa paura, o se invece le nostre mascherine, molto simili tra loro, ci ricordano che siamo tutti sulla stessa barca e che ci possiamo salvare solo insieme.
L’esito della scelta non è scontato e non può essere annunciato con un Dpcm (magari con successive circolari interpretative). La fiducia, condizione necessaria per poterci guardare con simpatia e non con sospetto e per tornare a vivere in pienezza le nostre relazioni, non si impone per decreto, ma si alimenta con la responsabilità personale.
Di fronte a una situazione maledettamente complessa, caratterizzata da una “stabile” incertezza (anche dal punto di vista scientifico il quadro è in continua evoluzione), quello che ciascuno di noi può fare è, infatti, comportarsi in modo responsabile nella consapevolezza che le nostre azioni hanno una ricaduta sugli altri. Questa dovrebbe essere una ovvietà e invece ci è voluta una pandemia per ricordarcelo. L’individualismo narcisistico che, almeno in Occidente, è il tratto culturale principale di questi ultimi decenni, si è infatti costruito attorno alla centralità assoluta dell’individuo e al parallelo disinteresse (spesso esplicita ostilità) nei confronti del prossimo.
Nella vita personale e di relazione c’è sempre un po’ di rischio. Nel “covidico” tale rischio è più accentuato, ma potrà essere affrontato se possiamo fidarci l’uno dell’altro. In tal senso dobbiamo siglare un nuovo patto sociale che comporti un di più di responsabilità reciproca, perché tanto più saremo responsabili, tanto più il rischio sarà ridotto. Questo “nuovo patto” funzionerà se sapremo riscoprire l’essere comunità. Questi due mesi di quarantena, con le tantissime sofferenze e lutti che ci lasciano, sono stati anche un esempio di grande responsabilità che si è rafforzata perché vissuta insieme, sentendoci davvero comunità. Anche per tutto questo un Dpcm sarà inutile. Servirà l’impegno di ciascuno di noi. È solo così che un Paese può tornare a crescere.