Mafia in Veneto: la cinematografia con la miniserie “Faccia d’Angelo” ne ha sottolineato l’esistenza, ma forse non abbastanza

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Mafia in Veneto: la miniserie Faccia d'angelo
Mafia in Veneto: la miniserie Faccia d'angelo

Mi so’ veneto!”. E’ una delle prime battute pronunciate dal piccolo “Toso” nella miniserie “Faccia d’Angelo”, dedicata alla “mafia in Veneto”, quando si presenta alla selezione per una borsa di studio.

Tutte le mafie hanno avuto diverse sceneggiature dedicate al fenomeno, nel mondo del cinema e della televisione, a partire da quando ancora non si sapeva quasi niente riguardo alle stesse e persino “Cosa Nostra” era una semplice ipotesi investigativa come nome, non supportata da nessuna prova (la certezza “ufficiale” ci sarà con il pentimento di Buscetta). Molti sono i film e le serie, con il boom degli ultimi decenni che vedono peraltro un’estensione del classico territorio di riferimento delle tre grandi mafie principali (Camorra – Campania , Ndrangheta – Calabria, Cosa Nostra – Sicilia) al Lazio, con la recente “scoperta” di una serie di organizzazioni anche nel centro Italia, a Roma in particolare.

Pure all’estero, negli USA ma non solo, sono stati realizzati film e serie tv sulle malavite organizzate originarie della zona. Grazie a questa diffusione di pellicole a riguardo, abbiamo tutti una leggera infarinatura su molte realtà criminali ed i loro territori d’azione e d’influenza. Ed il Veneto, con la sua mafia locale, la Mala del Brenta, non ha fatto eccezione.

Faccia d’Angelo”, del 2011, è ispirato alla vita di Felice Maniero con gli inizi come rapinatore e poi con gli affari con la mafia siciliana, il controllo del traffico di droga e del gioco d’azzardo.  Il protagonista, interpretato da un eccellente Elio Germano, non ha un nome ed un cognome ma solo un soprannome, “Toso” (ovvero “ragazzo” nelle parlate venete centro-orientali); i classici “motivi di sicurezza” incomprensibili che portano le produzioni a non esplicitare il nome dei personaggi, nonostante sia palese il richiamo all’uomo reale, nell’utilizzo del suo soprannome più noto come titolo della miniserie.

Una visione abbastanza classica e “romantica” del personaggio di Felicetto, guascone criminale e sciupafemmine, amante del lusso e dei soldi. Chiaramente non è un soggetto ritratto attraverso una lente positiva: i poliziotti che gli danno la caccia sottolineano le morti causate dalla droga che lui fa distribuire nella regione mentre i suoi complici ed amici sono caratterizzati come soggetti violenti e abbastanza “animaleschi” in parecchie espressioni e comportamenti.

Insomma anche il Veneto ha avuto la sua mafia ed ha meritato un film (capita che la miniserie venga trasmessa come “pezzo unico”) al riguardo. Peccato, però, per due questioni: la prima, come già detto, è il fatto che Maniero viene descritto come un delinquente ma romantico per cui sono totalmente assenti i riferimenti, per fare un esempio, alla morte di Cristina Pavesi; la seconda è che, comunque, questa proiezione finisce per supportare la tesi della scomparsa di qualsiasi forma di mafia veneta dopo l’arresto ed il pentimento di Maniero.

La mafia autoctona nostrana, in realtà, potrebbe benissimo continuare ad operare (ne abbiamo parlato qui) in collaborazione con le “organizzazioni” esterne. Evidentemente però non suscita un interesse particolare come argomento, al di fuori di pochi ambienti giudiziari, politici e giornalistici.

Nel Lazio il “boom” dell’interesse sulle questioni di crimine organizzato è sorto dopo che lo scandalo di “Mafia capitale” è venuto a galla, con tutti i suoi riferimenti rintracciabili in un libro, “Suburra”, il quale è diventato un film prima ed una serie Netflix poi, con numerose stagioni. Il film è uscito nel 2015, quando l’inchiesta “Mafia capitale” era ancora fresca , molto prima che decadessero le accuse per organizzazione mafiosa. Va detto, inoltre, che, come spesso succede, il cinema “forma” le menti degli spettatori ed oramai, anche se per gli imputati di quel processo a livello giudiziario non si parla più di mafia, tutti si sono interessati dei clan che operano a Roma, da quelli campani a quelli di origine zingara.

Significativa in tal senso è l’attenzione ricevuta da una famiglia criminale del litorale ostiense, gli ormai celebri Spada, grazie anche a comportamenti poco avveduti degli stessi, dalle foto con i protagonisti del film Suburra ad aggressioni ai giornalisti con le telecamere al seguito. Questo clan all’epoca di quei fatti non operava da pochi mesi, ma da anni, molti anni. Il cinema ha contribuito, dunque, a sollevare il sipario che nascondeva una realtà organizzata e ben inserita nel tessuto cittadino di Ostia.

In definitiva la cinematografia si adegua ovviamente agli interessi del pubblico, ma in casi come quello delle mafie può in qualche modo contribuire al contrasto delle stesse, mantenendo alta l’attenzione sul fenomeno. In Veneto non abbiamo più avuto, dopo “Faccia d’Angelo”, una produzione riguardante la criminalità locale, criminalità che esiste, comunque, anche se non è paragonabile alla vecchia Mala del Brenta.

E che campa tranquillamente, nell’ indifferenza dei più.

Dennis Vincent Klapwijk


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