La lettera del presidente di Confindustria Bonomi ai presidenti delle associazioni confederate (scaricala qui) è molto interessante perché svela, se mai ce ne fosse bisogno, come Confidustria intende i rapporti di lavoro.
Si scrive di "contratti rivoluzionari" e si intende che i salari non dovranno più essere legati all'orario di lavoro ma a qualcosa d'altro. Senza tanti giri di parole è facile interpretare che quello che si vuole è un ritorno all'antico, a qualcosa che porta il nome di "cottimo". Un esempio dello sfruttamento del lavoro altrui. Qualcosa che le lotte dei lavoratori avevano sconfitto e che ora torna prepotentemente alla ribalta.
Si chiede di poter licenziare come e quando si vuole (come se non fosse già consentito con l'azzeramento, di fatto, dell'articolo 18), di ottenere un livello più alto di impunità, di aumentare a dismisura il welfare aziendale, le privatizzazioni, lo smart-working (che può facilmente diventare una subdola forma di sfruttamento sempre più intensivo dei lavoratori con l'assenza di un orario certo di lavoro). Si legge anche di "in
nalzamento della qualità del capitale umano" relegando chi lavora ad essere solo una “cosa”, un oggetto che può essere qualificato solo in funzione di come e dove collocarlo.
Tutta la lettera è intrisa della volontà di considerare il lavoro una cosa di pertinenza dell'impresa. Una questione che deve essere affrontata solo con il criterio caro ai padroni: il profitto viene prima di qualsiasi cosa e tutto deve essere “calibrato” in relazione al suo aumento. E anche se si utilizza l'ormai noto slogan “siamo tutti nella stessa barca” la fatica rimane di chi lavora mentre il guadagno va a chi fa lavorare gli altri. Non esiste, per confindustria, solidarietà diversa dalla complicità tra imprenditori.
Non è un attacco al governo o ai sindacati, no, o meglio, non solo.
È un attacco formidabile (e ottuso visti i risultati ottenuti in decenni di politiche di scivolamento verso l'iperliberismo) alle lavoratrici e ai lavoratori, ai diritti di ogni persona che vive del proprio lavoro.
Sembra chiaro che è il momento, per confindustria, per sferrare l'attacco finale contro lo Stato Sociale. Il conflitto viene scatenato da una sorta di “casta reazionaria” che vuole tutto. Che pretende soldi e potere. Potere di vita e di morte sugli "inferiori".
Il finale della lettera risulta particolarmente inquietante quando parla di rispondere alle intimidazioni che le imprese subirebbero e del pericolo del costo dovuto all'incompetenza (che è caratteristica solo di “altri”).
Domandiamoci chi sia l'incompetente. Lo sfruttato o chi sfrutta senza pianificare un futuro che non sia solamente togliere diritti e pagare meno chi lavora per accumulare sempre maggiori ricchezze personali? Quella di confindustria è, di fatto, una sorta di "chiamata alle armi" per cancellare anche i resti di una costituzione martoriata dall'arroganza e dalla protervia di padroni che non si sentono mai responsabili di alcunché e dall'ignoranza di politicanti a loro asserviti.
Non cìè traccia, nella lettera, di nessuna autocritica. Si tace delle responsabilità padronali nella situazione disastrosa di crisi che stiamo subendo. Non si fa cenno della mancanza di sicurezza nel e del lavoro. La sicurezza è un orpello, un costo che va insieme ad altri. Del resto, per lorsignori, le lavoratrici e i lavorratori non sono, forse, solo “capitale umano” e, quindi, qualcosa e non qualcuno?
Quello che, in quella lettera, si prospetta è sempre maggiore precarietà, insicurezza diffusa, diminuzione dei costi …
Quanto chiesto da Bonomi non è rivoluzione e nemmeno progresso. Non è neanche (falsa) modernità. È solo la vecchia restaurazione, una pericolosa svolta reazionaria.
Di fronte a questo ritorno al passato, i sindacati, per il momento, timidamente tacciono o, al massimo, sussurrano qualche distinguo. Sembrano pronti a concordare un patto sociale che significherà, senza dubbio, solo questo: la crisi la devono continuare a pagare lavoratori e pensionati e non ci sarà nessun miglioramento nelle loro condizioni di vita, anzi…
Giorgio Langella e Giovanni Coviello
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