Ordinanza anti-Kebab di Vicenza finisce su Repubblica. E c’è chi fa il paragone con le leggi razziali

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Kebab

No anche ai fast food. Nel centro storico stop pure ai money transfer, ai gommisti e alle lavanderie. Il centrosinistra: “Siamo alle leggi razziali del commercio”. Ma l’assessore FdI dice: “Vogliamo tutelare il centro storico”
DI PAOLO BERIZZI su Repubblica

VICENZA. Pollo italiano sì, agnello straniero no. E dunque: niente macellerie halal. Figurarsi i kebab. Oggetti etnici: vietati. E anche l’usato (a meno che sia abbigliamento e accessori vintage). Dimenticarsi di lavanderie, carrozzerie, gommisti, meccanici e centri di revisione, così come dei sexy shop, dei centri massaggi, dei phone center, dei negozi di telefonia, gli internet point, i money transfer e i money change. Se state pensando che i i fast food non ve li tocca nessuno, sbagliate: banditi. E sapete perché? Perché “non somministrano prodotti riconducibili alla tradizione alimentare locale”. Benvenuti nella nuova Vicenza negazionista. Dove i negozi stranieri e i cibi stranieri saranno vietati. Funzionerà così, nel centro storico. Lo prevede il nuovo piano messo a punto dalla giunta comunale per regolamentare le “attività commerciali, artigianali e i pubblici esercizi” del cuore antico di Vicenza. Un piano — si legge nel provvedimento — “a salvaguardia di particolari ambiti della città”.

Ma andiamo con ordine. Di chi è l’idea, innanzitutto. Risponde al nome di Silvio Giovine, assessore al commercio e candidato con FdI alle imminenti elezioni regionali. A giugno Giovine si appuntò come una medaglia quella che lui considerò un successo, anzi, un “primato italiano”: l’abolizione della clausola antifascista per l’occupazione di suolo pubblico. Adesso, tre mesi dopo, una nuova sorpresa. Destinata a far discutere. Per “cambiare volto” al centro storico, Giovine ha proposto un regolamento le cui linee guida, secondo qualcuno, hanno il sapore della discriminazione e della xenofobia. «È come se fossero state propugnate delle leggi razziali nel commercio», insorge Sandro Pupillo, consigliere comunale di centrosinistra. Va detto che la delibera non è ancora stata approvata in commissione e in consiglio. Ma a Vicenza — la città è amministrata dal centrodestra, sindaco è l’avvocato salentino Francesco Rucco — la danno per cosa fatta. «Vado fiero e orgoglioso di questo provvedimento — dice l’assessore Giovine — . Per tutelare l’inestimabile valore del nostro patrimonio Unesco alzeremo la qualità dell’offerta commerciale incidendo sulle nuove aperture, prevediamo sanzioni progressive per chi sgarra».

La lista di proscrizione delle botteghe parla chiaro. È vietata la vendita di “chincaglieria e bigiotteria di bassa qualità”, l’“oggettistica etnica”, così come non saranno ammesse macellerie e pollerie non italiane. Ma non è tutto. Il regolamento (nel quale rientra anche il veto ai prodotti a base di cannabis) prevede un no secco anche per le “aperture delle medie e grandi strutture di vendita di prodotti alimentari e non alimentari”. E di bar e ristoranti affiliati a grandi catene, così come fast food e distributori automatici di cibo.

Le restrizioni — secondo Giovine — avrebbero lo scopo di tutelare il made in Vicenza. Ma, di fatto, tagliano fuori completamente l’offerta e il commercio multiculturale. Vicenza, insomma, è già un caso. Una delibera così “mirata” e punitiva non ha precedenti. È vero: sono decine i Comuni che in questi anni hanno varato ordinanze anti-kebab e anti-phone center per “tutelare il decoro urbano”. Alcuni esempi: Genova, Verona. Nel 2016 l’allora sindaco di Padova Massimo Bitonci — lo fece anche nel 2009 a Cittadella — portò avanti un crociata contro i kebabbari e il Tar gli diede ragione respingendo il ricorso degli esercenti. Ma nel 2018 il divieto fu cancellato dal consiglio comunale. Venezia nel 2017 imitò il modello Bitonci. In principio fu Covo, 4 mila abitanti in provincia di Bergamo: nel 2014 la giunta disse no ai negozi che vendevano il tradizionale cibo arabo. Poi venne Capriate San Gervasio, sempre nella bergamasca. Dalla provincia del profondo nord alla Capitale: nel 2013 l’Assemblea capitolina è intervenuta per disciplinare le attività commerciali nella città storica. Ma nulla a che vedere con i veti di Vicenza.