di Ugo Arrigo (prof. di Economia Politica e Finanza Pubblica all’Università di Milano Bicocca) su Il Fatto Quotidiano
Il Recovery Fund ha un antecedente famoso, lo European Recovery Program, o ERP, più noto come piano Marshall, avviato nel 1947 e operativo sino al 1951-52. I due programmi hanno una finalità simile, rimettere in moto le economie europee dopo un crollo generato da gravi cause extra economiche, la guerra nel primo caso, l’epidemia nel secondo.
Quali analogie e differenze li caratterizzano? Vi sono aspetti positivi del piano postbellico che sarebbe opportuno replicare? Esso fu promosso e finanziato dagli Stati Uniti in favore dei paesi europei i cui sistemi economici erano usciti compromessi dalla seconda guerra mondiale e le popolazioni impoverite e affamate, sia che appartenessero agli Stati vincitori che ai vinti.
Un primo confronto è tra le dimensioni economiche. Il Recovery ha una dotazione di 750 miliardi di euro, di cui 390 a fondo perduto e 360 di prestiti. Il Marshall vide una spesa di 13 miliardi di dollari nel quadriennio a cavallo del 1950 i quali corrispondono, rivalutati con l’inflazione, a 144 miliardi di dollari di oggi e, al tasso di cambio dell’ultimo anno, a 128 miliardi di euro. Ma questa rivalutazione, che fa apparire il Recovery sei volte il piano Marshall, non è adeguata. Più corretto è rapportare la dimensione economica del piano al Pil Usa dell’epoca e vedere a quanto corrisponde ora.
I 13 miliardi del piano Marshall rappresentano il 4,8% del Pil Usa del 1948, pari a 275 miliardi di dollari, e corrispondono all’1,2% in media all’anno per il quadriennio in cui fu attivo. Nel 2020 il Pil Usa supererà i 22 trilioni di dollari, dei quali il 4,8% vale 1.076 miliardi di dollari (960 miliardi di euro), un valore maggiore del Recovery. Di essi, inoltre, più del 90% rappresentavano erogazioni a fondo perduto. Si tratta di circa 870 dei 960 miliardi di euro a valori 2020 prima calcolati, più del doppio del Recovery. Il piano Marshall non solo era più grande del Recovery per dimensioni finanziarie, sia totali che a fondo perduto, ma a causa dell’impoverimento bellico dei paesi europei, il suo impatto sul Pil dei beneficiari fu un multiplo del suo peso sul Pil del paese finanziatore: circa l’11% del loro Pil del 1948, corrispondente a più di due punti e mezzo media all’anno. Invece i 750 miliardi del Recovery sono solo il 5,4% dei quasi 14 trilioni di euro di Pil dell’Ue ante-virus e la loro componente a fondo perduto solo il 2,8%, meno di un punto percentuale all’anno trattandosi di un programma previsto come triennale.
Bisogna anche ricordare che la condizione economica dei beneficiari non è paragonabile a quella di 72 anni fa, con i paesi usciti dalla guerra con capacità produttiva compromessa e impossibilità a soddisfare bisogni anche elementari delle popolazioni tanto con la produzione nazionale quanto con le importazioni, non disponendo di valuta estera per procurarsele in assenza degli aiuti americani. Allora in Europa gli impianti produttivi erano nella peggiore delle ipotesi compromessi, nella migliore obsoleti, perché non erano stati fatti gli investimenti necessari al loro rinnovo a causa della priorità bellica. Anche quando in buono stato, il funzionamento era stato compromesso prima dalle razzie di scorte fatte dagli occupanti e poi dalla scarsità degli approvvigionamenti esteri di materie prime.
Oggi gli impianti sono invariati rispetto a prima del coronavirus. Questo però non cancella la necessità di accelerarne la sostituzione e il miglioramento, un processo che nel nostro paese la crisi recessiva del 2008 ha troppo a lungo frenato e ridimensionato.
Confrontati i due piani nel loro complesso qual è il beneficio finanziario dell’Italia nei due casi e quale fu l’utilizzo delle risorse di 70 anni fa rispetto al possibile utilizzo delle nuove? Noi fummo il terzo beneficiario del piano Marshall, dopo la Gran Bretagna e la Francia e prima della Germania e dell’Olanda. Dei 13 miliardi di dollari spesi dagli americani la Gran Bretagna beneficiò del 24%, la Francia del 20%, l’Italia dell’11 e la Germania del 10. Il criterio ufficiale di ripartizione fu il disavanzo commerciale dei paesi e la necessità di riequilibrio della loro bilancia dei pagamenti, ma è evidente che gli alleati storici e i Paesi vincitori ottennero più dei nuovi alleati ma ex perdenti.
Considerando tutte le erogazioni l’Italia ottenne 1,5 miliardi di dollari dell’epoca che corrispondono, se venissero pagati ora dagli Usa in proporzione al loro Pil, a 122 miliardi di dollari e 109 miliardi di euro. Il Recovery, con i 208 miliardi totali attesi per l’Italia, appare pertanto molto più generoso per noi del Marshall, ma se rapportiamo i due importi ai livelli di Pil dell’Italia di ogni epoca troviamo valori quasi identici: i 208 miliardi attuali rappresentano l’11,6% del Pil italiano del 2019, presumibilmente il 12% del Pil 2020, mentre il beneficio totale del Marshall rappresenta il 10,5% del Pil del 1948 (860 miliardi di lire di aiuti su un Pil di 8.200 miliardi).
Se restringiamo il confronto alla sola componente a fondo perduto dei due programmi, gli 81 miliardi attesi dal Recovery sono quasi identici agli 86 miliardi a valori attuali del Marshall e ovviamente sono ora molti di meno in rapporto al Pil. Tuttavia anche le condizioni economiche non sono in alcun modo paragonabili con quelle debolissime della fine degli anni 40, ragione per cui possiamo concludere che il Recovery sia in rapporto ad esse molto più favorevole all’Italia del piano Marshall.
Per questo è fondamentale cogliere questa occasione irripetibile per modernizzare il paese e la sua struttura produttiva, per riprendere dopo due decenni perduti una crescita che sia sostenibile e green. A fine anni 40 una quota consistente degli aiuti del Marshall dovette essere utilizzata per acquistare dagli Usa stessi beni essenziali che non eravamo in grado di produrre. Metà dell’aiuto se ne andò in acquisti di materie prime e combustibili. L’utilizzo per investimenti e acquisto di beni capitali vi fu, ma molto meno di quanto i nostri benefattori avessero auspicato, e non raggiunse il 25% delle somme. Tutti i fondi del Recovery, invece, possono e debbono essere destinati a investimenti. Ma che tipo di investimenti? E chi deve farli, il settore pubblico o quello privato? È qui che si gioca il successo o il fallimento del Recovery.
Settant’anni fa l’economia italiana era messa malissimo ma vi erano strumenti per la crescita molto più efficaci, che infatti da lì a poco avrebbero generato il boom economico: alcuni grandi gruppi privati e, soprattutto, le grandi imprese pubbliche dell’Iri, oltre all’Agip non ancora divenuta Eni. In una decina di settori chiave le imprese Iri coprivano tra il 50 e il 90 per cento della produzione nazionale e fecero la parte del leone nell’uso degli approvvigionamenti resi possibili dagli aiuti americani. Oggi l’Iri non c’è più, sacrificata nella stagione delle privatizzazioni. Ma al suo posto non vi sono imprese private in grado di effettuare investimenti di dimensioni paragonabili e il settore pubblico, ritiratosi negli anni 90 dal manifatturiero, nell’ultimo ventennio si è limitato a investimenti infrastrutturali, certo necessari ma non sostitutivi rispetto agli investimenti in grado di accrescere la capacità produttiva del paese. Siamo al paradosso per cui nel dopoguerra mancavano le risorse ma vi era chi avrebbe potuto usarle efficacemente e il piano Marshall rimediò a quella scarsità. Oggi si prospetta un’abbondanza di risorse ma non si intravede chi potrebbe utilizzarle con efficacia, trasformandole in crescita di lungo periodo come già avvenne dopo e grazie al piano Marshall.
Se vogliamo investimenti produttivi sono le imprese che debbono farli, non la pubblica amministrazione, ma l’impresa pubblica non c’è più e quella privata non c’è mai stata su una scala dimensionale adeguata. Mai come ora sarebbe stato utile avere un Iri risanato anziché averlo buttato assieme all’acqua sporca delle sue perdite.