In questi giorni di stacco dalla Didattica a Distanza mi sono potuto dedicare ai miei passatempi preferiti: assemblare una chitarra nuova e leggere un libro di filosofia. L’impegno nella DaD, infatti, – nonostante quanto affermi la ministra Lucia Azzolina – dilapida molto del poco tempo che la vita ci concede e, quindi, vivo come un grande dono essermene riappropriato seppure per poco. La chitarra che ho assemblato è una Fender Stratocaster blu, mentre il libro che ho riletto è l’Etica di Spinoza e devo ammettere che è stata più facile la prima della seconda cosa. Tuttavia, dopo la fatica, è arrivata un’intuizione che vorrei sviluppare in queste righe.
Con Spinoza si parte sempre dall’esistenza o, meglio, dalla sua comprensione. Il primo assioma della sua Etica dice che «tutto ciò che esiste è o in sé o in altro»[1]. L’esistenza, dunque, è il dato fondamentale che va decifrato: e da dove altro si potrebbe iniziare in filosofia? Ma l’esistenza è un abisso che può darci le vertigini: serve allora trovare dei punti fermi. Ma i punti fermi dell’esistenza si trovano solo in essa, infatti per Spinoza ogni cosa che esiste o è in sé o in altro.
Potremmo, allora, chiederci: «come si può esistere fuori di sé?». Se io esisto, esisto in me stesso, nel mio corpo, nella mia casa, nella mia città, nel mondo. Se fossi fuori da me sarei pazzo e la mia condizione sarebbe patologica: gli alienati sono, infatti, persone che non hanno la coscienza della loro presenza individuale e vivono costantemente fuori da sé.
Ad ogni modo, due secoli di letteratura hegeliano-marxista ci hanno fatto capire che l’alienazione può anche essere un momento dello sviluppo dello Spirito o del lavoro da superare il prima possibile. E, invece, Spinoza ci dice che l’esistenza che è in altro non è una determinazione patologica o transitoria, ma strutturale, perché essa ha un carattere duplice, di coincidenza con sé e di aderenza ad altro e non apre alla possibilità di passaggio da uno stato all’altro. Non c’è quindi dialettica, ma un aut aut.
Chi sbaglia quindi? Forse sbaglio io a leggere così Spinoza?
Il termine latino existentia sembrerebbe suggerirci che abbia ragione Spinoza: la preposizione ex indica appunto questo movimento da un fuori, da un altro. L’esistenza, quindi, apre ad una relazione costante con un’alterità. Le nostre competenze di base – come quelle linguistiche – provengono in larga parte dal contesto familiare e sono la base indispensabile per orientarsi nel mondo: se i miei genitori mi avessero parlato solo in dialetto, non avrei imparato l’italiano e, se non mi avessero parlato affatto, oggi non saprei parlare. Inoltre, alcune idee e conoscenze sono il frutto degli insegnanti che abbiamo – per puro caso – incontrato nel nostro percorso scolastico. Anche la dimensione emotiva che ci pervade è ancorata al contesto culturale di appartenenza: con qualche difficoltà molti riuscirebbero ad andare per le strade di Roma nudi come gli Aborigeni, ma proverebbero un senso di disagio e vergogna. Eppure ci sono tante persone che non provano affatto vergogna a filmare i propri rapporti sessuali e questo dimostra che la vergogna è un sentimento tipicamente sociale. C’è quindi sempre un’alterità culturale, ambientale e mentale che determina la sintassi del nostro pensare e sentire.
Eppure, lo stesso nostro corpo non è esente da questa condizione sociale. Per dirla con Spinoza «per conservarsi, il corpo umano ha bisogno di moltissimi altri corpi dai quali viene continuamente quasi rigenerato»[2]. Quindi la struttura del corpo umano è una struttura relazionale, inserita in un sistema di relazioni con altri corpi (come diceva la filosofa comunista Emilia Giancotti commentando questo passo) e questo essere collegati l’uno con l’altro è la causa stessa dell’esistenza. Fuori dalle relazioni non saremmo: c’è una rigenerazione continua del corpo, ma anche della mente quando si sta con gli altri.
Già Aristotele nella Politica diceva che «chi non è in grado di entrare a fare parte di una comunità oppure, in quanto autosufficiente, non ha bisogno di niente, […] è, quindi, o una belva o un dio[3]». Spinoza non si scosta dal modello aristotelico quando afferma che la natura dell’uomo è quella di essere in altro, ma questa condizione non è motivo di debolezza, bensì di vita e rigenerazione. L’autonomia totale è un’illusione velenosa da cui bisognerebbe disintossicarsi.
Due le possibili conseguenze individuali e globali di una visione di sé e del mondo senza vincoli: il solipsismo o il disastro ambientale. A che punto siamo?
[1] B. Spinoza, Etica, in Opere, a cura e con saggio introduttivo di F. Mignini, Mondadori, Milano 2015, p. 788
[2] B. Spinoza, op. cit., p.855
[3] Aristotele, Politica, a cura di F. Ferri, Bompiani, Milano 2016, p. 79
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