Covid, bisogna riaprire e pazienza se qualcuno morirà: parole come pietre. INAIL: al 30 novembre 104.328 contagi sul lavoro e 366 morti

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Lavoratori e ingranaggi
Lavoratori e ingranaggi

È passata una settimana da quando il 15 dicembre scorso, si potevano leggere le parole pronunciate dal presidente di Confindustria di Macerata Domenico Guzzini: "Ci aspetta un Natale molto magro. Le persone sono stanche di questa situazione e vorrebbero venirne fuori. Bisogna riaprire: anche se qualcuno morirà, pazienza".

Una settimana e già non le ricordiamo più. Certo, Guzzini ha chiesto scusa e si è dimesso dal suo incarico confindustriale, ma questo non può essere una scusa per dimenticare quelle parole e anche le affermazioni di sostanziale giustificazione che sono state espresse da personaggi della politica nostrana. Ricordiamo, ad esempio, quella del presidente della regione Marche Franceso Acquaroli (“Conosco Domenico Guzzini e sono certo che quella di ieri è una affermazione infelice, un errore non voluto che non rappresenta il suo pensiero, e che non voleva dire quello che ha detto. A riprova di questo è arrivato il suo chiarimento, oltre che le sue scuse”) e quella del presidente della regione Liguria Giovanni Toti che benevolmente riduce la frase di Guzzini a “una battuta infelice, come tale la archiviamo” .

Non possiamo dimenticare perché quella di Guzzini non è stata una espressione infelice che gli è scappata nella foga del discorso (anche così sarebbe inconcepibile), ma qualcosa che, da tempo ormai, fa parte di una ideologia trionfante che considera chi lavora “capitale umano”, “parti di una macchina”, “cose” che servono soprattutto a produrre profitto per chi possiede “l'impresa” diventata un feticcio al centro della vita e delle prospettive di ognuno. Non si devono dimenticare quelle parole perché in definitiva e forse inconsapevolmente, Domenico Guzzini non ha detto che la verità.

Basta ricordare anche solo il recente passato e si ha la consapevolezza che affermazioni simili (magari non così dirette e formalmente ciniche) e persino fatti che accadono ogni giorno, dimostrano che ai proprietari di impresa, evidentemente, interessano molto di più i soldi e il profitto piuttosto che la vita e la salute degli esseri umani o la tutela dell'ambiente.

Ricordiamo, allora, quello che scrisse il presidente di confindustria Bonomi in ottobre in una lettera aperta (“purtroppo stiamo vivendo una dittatura che è giustificata dall’emergenza sanitaria”). E non dimentichiamo neanche che a fine febbraio, all'inizio della pandemia conclamata, confindustria bergamasca pubblicò un video in inglese (“Bergamo is running”) che minimizzava il pericolo e assicurava i clienti dell'efficienza dei siti produttivi. Tutto era, per confindustria, sotto controllo. Sappiamo quello che poi è successo soprattutto a Bergamo e Brescia. Anche a fine febbraio di quest'anno esponenti del capitalismo nostrano chiedevano di tenere tutto aperto salvo poi, davanti all'evidente tragedia che si stava consumando (e che continua oggi con centinaia di morti e migliaia di contagiati ogni giorno), ammettevano di essersi sbagliati.

Vogliamo anche ricordare l'appello con il quale, all'inizio di aprile in pieno lockdown, i presidenti di confindustria del Veneto, del Piemonte, della Lombardia e dell'Emilia Romagna chiedevano la riapertura delle imprese (pur affermando “la salute è certamente il bene primario”).

È notizia diffusa da INAIL che, al 30 novembre, sono 104.328 le denunce di contagio da coronavirus nei luoghi di lavoro e che i morti (lavoratrici e lavoratori assicurati INAIL) sono 366.

E si potrebbero aggiungere anche altre questioni.

L'indifferenza riguardo gli invalidi e i morti per infortunio sul lavoro e per malattie professionali. Indifferenza frutto anche della sostanziale sottovalutazione mediatica su questo tema. Un silenzio che nasconde il numero impressionante di vite spezzate, un massacro di migliaia di donne e uomini ogni anno e che viene considerato abitualmente una fatalità. Certo, si aggiunge il termine “tragica” e ci si lava la coscienza; si dicono frasi di circostanza, si afferma “mai più” … alla fine tutto torna come prima, nell'ombra, nel disinteresse, nella mancanza di informazioni. In definitiva la sicurezza nel lavoro è un costo, così si ritorna al concetto che i soldi sono più importanti della vita e della salute di chi lavora.

La realtà, però, è ben diversa. Sono 571 i lavoratori morti sui luoghi di lavoro dall’inizio dell’anno, 1168 complessivi con i morti sulle strade e in itinere. Altri 460 morti per infortunio da coronavirus (fonte “Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro” che tiene conto anche di chi lavora ma non è assicurato INAIL). E ieri, senza alcun clamore e neppure qualche notizia degna di nota, tre lavoratori hanno perso la vita nell'esplosione che si è verificata in una fabbrica di recupero polvere da sparo e esplosivi a Casalbordino in provincia di Chieti.

Non solo. Consideriamo i licenziamenti che vengono, da tante parti, considerati ineludibili. Quante volte si è sentito affermare dai vertici di confindustria che il blocco dei licenziamenti in vigore in periodo di coronavirus è penalizzante per l'economia, che è insostenibile da parte delle imprese? E quante aziende hanno chiuso lasciando a casa centinaia di lavoratori e gettando sul lastrico le loro famiglie? Di pochi giorni fa è la notizia della chiusura della Forall di Quinto Vicentino (azienda tessile che produce abbigliamento Pal Zileri) che farà perdere il lavoro a oltre 350 persone. Domandiamoci se sia mai possibile che a pagare le crisi, in definitiva, siano sempre le lavoratrici e i lavoratori?

Nel mondo capitalistico la realtà è questa e le cose non cambiano. Una notizia anch'essa “oscurata” dai più diffusi organi di informazione è la quotazione in borsa a Wall Street dell'acqua che verrà destinata al mercato dei derivati.

Con questa mossa si vuole fare profitto e guadagnare anche dal bene primario per eccellenza, l'acqua. Una risorsa indispensabile alla vita stessa degli esseri che popolano il pianeta. Un bene pubblico che deve essere di tutti e gratuito sul quale si vuole speculare e “fare soldi”.

Come si legge da più parti l'idea è nata presso l'Economics of Ecosystems and Biodiversity di organizzazioni come l'ONU, la FAO, la Banca Mondiale e con il supporto della UE, seguendo il dettame che gli Stati devono privatizzare anche le risorse naturali. In questa maniera le multinazionali otterranno guadagni consistenti da un bene del quale nessuno può fare a meno.

La democrazia resta un feticcio, una parola e nulla più, qualcosa di vuoto e impalpabile infarcito di slogan utili solo a distrarre la folla.

Si "gioca" sulla pelle dei popoli sfruttando le previsioni atmosferiche e i disastri ambientali per fare soldi. È logico pensare, ad esempio, che una siccità (o anche solo una previsione di essa) farà alzare il valore in borsa dell'acqua e qualcuno guadagnerà sulla sete di popoli interi. È altresì facile prevedere che ci saranno, molto probabilmente, operazioni di aggiotaggio. L'acqua diventerà un "bene privato" con il quale si faranno soldi e tanti. Avrà un prezzo e a pagarlo sarà la stragrande maggioranza della popolazione mondiale costretta sempre più a carestie, siccità, guerre … che verranno scatenate perché l'acqua non servirà solo a dissetare ma a fare profitto.

Rendiamocene conto che, la quotazione in borsa dell'acqua, è una cosa gravissima che avrà conseguenze disastrose per tutti. E che è anche qualcosa che si lega alle parole di Guzzini, alla lettera di Bergamo, ai morti sul lavoro, ai licenziamenti. Un legame stretto perché è sempre la stessa ideologia che guida tutto questo. L'ideologia capitalista che considera qualsiasi persona, animale, pianta, territorio fonte di guadagno per pochi, cose da sfruttare. L'importante sono i soldi, il profitto di pochi. Il resto, i diritti e la vita di tanti, non conta.

Questa è la globalizzazione del sistema capitalista e questo è il "realismo capitalista" al quale, come vogliono lorsignori, non ci si può né ci si deve opporre.

Il vero volto del capitalismo è proprio questo.

Affermare (seppur con tante scuse a posteriori) “anche se qualcuno morirà, pazienza”, ostentare indifferenza riguardo i morti sul lavoro, considerare i licenziamenti e la disoccupazione qualcosa di inevitabile per mantenere alti i profitti, speculare sull'acqua sono solo esempi aberranti di un sistema spaventoso retto da pochi "illuminati" che si sono autonominati padroni non solo del mondo e delle sue risorse ma anche delle persone.

In definitiva in un mondo sempre più tecnologicamente avanzato stiamo assistendo a sperequazioni sempre maggiori di ricchezza, fatica, salute, prospettiva di vita. Per la stragrande maggioranza della popolazione il lavoro e la vita stessa sono precari.

Domandiamoci se sia giusto quello a cui stiamo assistendo e chi dovrebbe trarre beneficio dal progresso. Pochi privilegiati (magari quei 40 miliardari italiani che, a luglio, possedevano una ricchezza complessiva di circa 165 miliardi di dollari) o ne hanno diritto tutti?

La risposta dovrebbe essere semplice, ovvia.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.