Dal socialismo al comunismo: l’economia tra istanze di liberazione e alienazione

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Le trasformazioni economiche avvenute a partire dal ‘700, che vedono l’affermazione dell’industria e il massiccio spostamento di uomini che lasciano le campagne per trasferirsi in città mettendo a disposizione solo la propria forza lavoro, determinano la nascita di una nuova sensibilità tra gli intellettuali, i quali denunciano il degrado della condizione operaia all’interno delle fabbriche, per cui verso la prima metà dell’Ottocento il pensiero socialista comincia a riflette sulla necessità di andare oltre l’uguaglianza formale liberale, giacché, senza uguaglianza economica, la libertà politica non può effettivamente essere fruita.

La nascita del termine Socialismo si può ascrivere al francese Pierre Leroux intorno al 1832, ma lo sviluppo di un pensiero socialista può essere retrodatato di qualche decennio, tuttavia è nel 1847 che la Lega dei Comunisti aveva commissionato a Karl Marx e al suo fido collaboratore Friedrich Engels, figlio di un ricco proprietario di filande, il compito di redigere un manifesto programmatico di lotta politica in modo da fare chiarezza sulle modalità con le quali conquistare il potere. Nasce così nel 1848 il Manifesto del partito comunista[1], un testo pubblicato con i fondi di una colletta, di sole 23 pagine nella sua edizione originale, destinato a diventare un classico della letteratura politica mondiale, la cui influenza, verso la metà del ‘900, era diffusa su un terzo della popolazione mondiale, che viveva sotto regimi che a vario titolo si richiamavano al socialismo.

Marx ed Engels, criticando il socialismo reazionario nelle sue varianti del socialismo feudale e del socialismo piccolo borghese, indirizzano la specifica vocazione del socialismo scientifico o comunismo verso l’analisi delle condizioni economico-produttive che intercorrono all’interno delle società. Oltre ad essere una dottrina politica e un’istanza morale di liberazione dell’uomo oppresso da un sistema che lo sovrasta, il comunismo si configura come un’analisi dei rapporti materiali di produzione all’interno dell’economia capitalistica e, infine, come una strategia politica di riappropriazione democratica del potere.

Marx crede che l’evoluzione della storia si manifesti per mezzo di una lotta tra classi e in quest’ottica egli attribuisce un valore profondamente rivoluzionario alla borghesia, perché ha saputo sconfiggere i privilegi della società feudale e imporsi al potere, permettendo così la provvidenziale realizzazione del suo stesso superamento ad opera del proletariato, una classe sociale oppressa dal sistema capitalistico. In questa modalità di produzione capitalistica, l’operaio è condotto a farsi un’immagine distorta della realtà, a crearsi una serie di miti che riflettono la sua condizione di soggetto alienato, da cui bisognerebbe liberarlo.

Tuttavia, la specificità del socialismo scientifico di Marx sta nella pretesa di essere una scienza della storia, fondata sul presupposto che i moventi reali della dinamica storica sono le modalità di produzione e i rapporti di produzione, vale a dire la base economico-sociale su cui si fonda la società. Per quanto concerne la società capitalistica, Marx individua nella forza-lavoro, nei mezzi di produzione e nelle conoscenze tecnologiche necessarie per migliorare la produzione, cioè la struttura (Bau in tedesco), lo scheletro economico su cui si fonda tale società e solo da queste prerogative scaturisce tutta la produzione culturale e spirituale che legittima una sovrastruttura (Überbau). La concezione materialistica della storia è una interpretazione sociologica della realtà: in sostanza, sono le condizioni di vita materiale che determinano le produzioni spirituali, non il contrario.

Al fine di corroborare la tesi dell’appropriazione capitalistica, attraverso il plusvalore nelle merci e il pluslavoro del proletario, Marx svolge nelle opere principali, tra cui i Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica[2] e ne Il Capitale[3], una serie di studi più approfonditi di carattere economico, in cui critica l’economia politica classica  e il liberismo di Adam Smith e David Ricardo e mostra come l’esito finale del capitalismo sarà la sua autodistruzione.

Contrariamente alle previsioni di Marx in nessun paese industrialmente avanzato, verso la fine dell’Ottocento, si ebbe una classe operaia così organizzata al punto da poter intraprendere una rivoluzione proletaria in grado di sovvertire il potere borghese liberale. Nel 1917 il messaggio marxiano fu recepito da un gruppo di intellettuali russi, che riuscirono a mettere in moto una macchina rivoluzionaria in un territorio poco industrializzato, mescolandolo con istanze di rinnovamento sociale, culturale e con idee anarchiche. La fondazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche rappresentò il modello internazionale per ulteriori rivoluzioni, arrivando a lambire, con risultati discutibili, terre e culture in Asia, in Africa e nel Centro e Sud America. Ancora oggi risulta difficile riuscire a comprendere all’interno del medesimo universo socialista esperienze eterogenee come quella cinese, quella nordcoreana di Kim Jong-un, quella araba di Yasser Arafat e quella di alcuni idoli generazionali come Ernesto Che Guevara.

[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Feltrinelli, Milano 2017.

[2] K. Marx, Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica, Pgreco, Roma 2012.

[3] K. Marx, Il Capitale, Newton & Compton, Roma 2015.

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a cura di Michele Lucivero

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