Il 12 settembre Leonard Peltier, attivista nativo americano, compie 78 anni. La sua vita, per oltre 46 anni, è stata trascorsa in carcere. Condannato dopo un ingiusto processo a due ergastoli con l’accusa di aver ucciso due agenti del FBI.
Prove insistenti e costruite, indizi risultati labili, testimonianze estorte e in seguito ritrattate, hanno consentito a un’accusa di parte e una giuria di soli bianchi, di formulare una sentenza atroce.
A Peltier, che si è sempre dichiarato innocente, è stato negato l’appello nonostante nuove prove lo scagionassero. A lui tutti i presidenti che si sono succeduti hanno negato il “perdono” anche con la motivazione che, siccome non si era mai dichiarato colpevole, non potevano “perdonarlo” e, di fatto, riconoscere la persecuzione subita. La storia di Leonard Peltier è conosciuta da pochi. Forse perché è meglio non sapere che nella “culla della democrazia occidentale” esistono prigionieri politici? Forse perché è meglio non capire che la sua colpa è di essere un indiano d’America?
Quello di Leonard Peltier non è un caso isolato. Un errore giudiziario o una persecuzione? La risposta più plausibile è la seconda. La persecuzione di una giustizia vendicativa come quella che stanno subendo Mumia Abu-Jamal, Chico Forti, Julian Assange …
Che fare? Intanto informare, avere memoria, stimolare la coscienza.
Stare vicino ai perseguitati, mobilitarsi per la loro liberazione, accusare gli aguzzini, dovrebbero essere cose normali per chi si dichiara sinceramente democratico. Troppo spesso, invece, chi potrebbe avere voce in capitolo, chi detiene il potere (piccolo o grande) tace e fa dell’indifferenza un’abitudine.
Si abbia coscienza che, se ci dichiariamo e siamo indifferenti, non diventiamo innocenti. L’indiffereza ci rende complici, responsabili di atti intollerabili.
Per finire, a tutti i perseguitati, quelli citati prima e tutti gli sconosciuti, i dimenticati, quelli di cui non si deve sapere, vogliamo dedicare i versi che Alejandro Romualdo scrisse in memoria di José Gabriel Condorcanqui, detto Tupac Amaru II, che, assieme alla moglie Micaela Bastidas, condusse una rivolta popolare contro il dominio spagnolo nel Perù della seconda metà del 1700.
CANTO CORALE A TÚPAC AMARU, CHE È LIBERTÀ
“Non ho più la pazienza di sopportare tutto questo”. (Micaela Bastidas)
Lo faranno saltare in aria con la dinamite.
In tanti, lo caricheranno, lo trascineranno.
Con violenza gli riempiranno la bocca di polvere.
Lo faranno saltare in aria:
E non potranno ucciderlo!
Lo metteranno testa sotto.
Strapperanno i suoi desideri, i suoi denti e le sue urla,
Lo prenderanno a calci con tutta la loro furia.
Infine lo dissangueranno
E non potranno ucciderlo!
Coroneranno la sua testa di sangue;
gli zigomi con violenti colpi.
E con i chiodi le sue costole.
Gli faranno mordere la polvere
Lo picchieranno:
E non potranno ucciderlo!
Gli toglieranno i sogni e gli occhi
Lo faranno a pezzi, urlo dopo urlo.
Lo sputeranno.
E con colpi mortali
lo inchioderanno:
E non potranno ucciderlo!
Lo metteranno al centro della piazza,
a faccia in su, a guardare l’infinito.
Gli legheranno gli arti.
Con crudeltà tireranno:
e non potranno ucciderlo!
Vorranno farlo saltare in aria e non potranno farlo.
Vorranno romperlo e non potranno farlo.
Vorranno ucciderlo e non potranno farlo.
Vorranno squartarlo, triturarlo,
sporcarlo, calpestarlo, togliergli l’anima.
Vorranno farlo saltare in aria e non potranno farlo.
Vorranno romperlo e non potranno farlo.
Vorranno ucciderlo e non potranno farlo.
Il terzo giorno di sofferenza
quando si crederà che tutto sia finito,
gridando “Libertà!” sulla terra, tornerà.
E non potranno ucciderlo.