di Michele Lucivero e Andrea Petracca
Il mestiere di insegnante è semplice e difficile al tempo stesso: semplice, perché appare fissato nell’eternità dei secoli dal suo coinvolgere anche solo due persone, un insegnante e un discente, e questa cosa non la scalfisce neanche l’appiattimento monodimensionale della didattica a distanza; difficile perché essere un buon insegnante, come essere un buon discente, non è qualcosa che si improvvisa, ci vuole studio, impegno, costanza, passione, pratica che diviene arte.
Lo sapeva bene Socrate, il Maestro che si proclamava eterno studente, anche quando, durante il processo, che lo avrebbe reso immotale, chiedeva ai suoi giudici di essere premiato e non punito: «E quale pena debbo patire o pagare io, perciò che in vita mia non mi quietai mai dalla voglia di apprendere (…)? Nulla mi si addice più che di essere mantenuto nel Pritaneo»[1].
Eppure, nonostante l’apparente fissità delle dinamiche in gioco nel rapporto tra docente e discente, una delle frasi che può capitare di sentire in bocca agli insegnanti, specialmente quando cominciano ad avere una certa età, è più o meno questa: «Quando io ho cominciato ad insegnare la scuola era molto diversa!».
È un’espressione retorica, pronunciata con nostalgia, alludendo ad una “mitica età dell’oro dell’insegnamento che mai tornerà”, oppure, altre volte, con rammarico, riferendola a situazioni nuove, incombenze che mal si digeriscono, meccanismi burocratici che si ritengono essere degenerati nel corso del tempo.
Così, per gioco, e non perché abbiamo una certa età (anche), possiamo provare anche noi a fare uno sforzo di memoria per ricordarci com’era diversa la scuola, prima che irrompesse la DAD.
Non serve far riferimento ai tempi in cui il Liceo, la scuola dove si formava la classe dirigente, appariva come un monolite impossibile da scalfire nel monte ore da dedicare a discipline ritenute imprescindibili, perché, ormai lo sappiamo, il quadro delle discipline è da sempre in continua evoluzione e, infatti, anche durante quest’anno scolastico così atipico, abbiamo trovato il tempo di arricchirlo con una nuova-vecchia materia, l’educazione civica.
E per ricordare una scuola del prima, non occorre, ancora, invocare i tempi delle okkupazioni, o delle autogestioni, perché già da diverso tempo i ragazzi ci appaiono più addomesticati, e le assemblee d’istituto, luogo privilegiato della partecipazione studentesca, raramente sono volte a discutere di politica, internazionale o nazionale, mentre si privilegia l’aspetto ludico o socializzante di tali incontri – prefigurazione dell’imminente fagocitazione social di ogni dibattito? Non sappiamo…ma, forse, questo essere addomesticati non riguarda solo gli studenti, perché anche i docenti, in fondo, hanno finito con l’essere sempre più politicamente corretti, più educati, attenti a non sconfinare in argomenti “divisivi”, come le questioni di genere, l’omosessualità, le differenze economiche, per paura di offendere la sensibilità della ragazze e dei ragazzi…o dei loro genitori.
Rimane il fatto, non scontato, tuttavia, che le ragazze e i ragazzi hanno ancora bisogno di ispirazione e l’ispirazione spesso arriva se si pongono i problemi in modo spiazzante, attraverso una sorta di maleducazione che fa risuonare le parole in modo diverso. Ma questa cosa, forse, un po’ per mestiere, assorbiti dal didattichese dei vari corsi di formazione frequentati, l’abbiamo persa?
Qualche decennio fa, quando cominciammo a insegnare – ma il ricordo può essere falsato dalla nostalgia – s’interagiva di più e ci si accaldava di più; la verifica scritta o il test a risposta multipla erano ritenuti un sacrilegio, perché pensavamo – noi insegnanti e anche gli studenti – che la grandezza di filosofi, scrittori, artisti, ad esempio, non potesse essere umiliata da un test vero/falso, ma poi è arrivata la terza prova, la sintesi estrema, e poi il Quizzone, poi Kahoot, il modulo Google e dall’anno scorso è andata in scena la farsa della scuola.
E allora sì, da marzo 2020, la scuola è diventata davvero un’altra cosa e avremmo tutti ragione nel pensare con rammarico, rabbia, nostalgia o ironia, che “prima era tutto diverso”.
Certo che la tecnologia ci ha aiutato tanto e in modo così discreto che, in effetti, non sapremmo davvero dire, nello specifico, in cosa ci abbia aiutato (si legga con ironia).
Quest’anno sarà diverso, dal 18 gennaio le scuole hanno riaperto in presenza, ma non in tutte le Regioni e non per tutti gli studenti, per metà di loro… e a turni, con ingressi scaglionati, insomma, di nuovo: sorvegliare e pulire!, eppure già la ragazze e i ragazzi protestano a Vicenza per tornare tra i banchi e protestano anche a Roma perché tra i banchi non ci vogliono tornare al 50%, non si sentono sicuri.
E i docenti, che fanno? Beh, loro sanno accontentarsi, avevano già imparato dalla scuola di prima ad aspettare, con educazione. E anche adesso non pretendono grandi cambiamenti, gli basta poter dialogare – se è possibile in carne ed ossa – con gli studenti, insegnare e apprendere insieme a loro, senza retorica, con passione, semplicità, emozione…«e non mi vergognerei di riconoscere di aver parlato scorrettamente», Platone, Carmide.
[1] Platone, Apologia di Socrate. Il Pritanéo era il sacrario della città, ove erano mantenuti a spese pubbliche i cittadini benemeriti.
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a cura di Michele Lucivero
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