Querele e denunce temerarie: serve ossigeno per l’informazione

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Dopo il disastro della Banca Popolare di Vicenza il 25 ottobre 2016 partì il primo processo: contro Gianni Zonin? No, per quello si parte solo il 1° dicembre prossimo,  ma iniziò subito il processo da lui chiesto contro di me, direttore di  VicenzaPiù, che avevo rivelato e documentato  la verità anche sui buchi della Fondazione Roi (cfr. “Roi. la Fondazione demolita“, nella foto presentato con Giorgio Meletti e Italo Francesco Baldo) dopo aver iniziato con la mia redazione a raccontare quella sulla BPVi fin dal 13 agosto 2010, poi raccolta in “Vicenza. La città sbancata” che dice tutto quello che a Vicenza nessuno ha raccontato mentre avveniva e che, esaurita la seconda edizione, a breve sarà ancora disponibile con la terza.

Si tenne, quindi, quel giorno al “vecchio tribunale” di Vicenza, sezione civile, giudice la dottoressa Elena Sollazzo, dopo la mia citazione da parte dell’ex presidente della Fondazione Roi la prima e ultima udienza perché, costretto Zonin alle dimissioni, il nuovo presidente Ilvo Diamanti ritenne opportuno, e conveniente, transare e chiuderla lì come sottolineò anche Ossigeno per l’Informazione (“Vicenza, Fondazione Roi rinuncia a richiesta di un milione di danni a Giovanni Coviello di VicenzaPiu.com“,  la Onlus istituita “nel 2008 con il patrocinio della FNSI e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti per documentare e analizzare il crescendo di intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani nella raccolta e diffusione delle informazioni di pubblico interesse più scomode e, in particolare, nella ricerca delle verità più nascoste…” e di cui sentirete a breve parlare di più nel nostro Veneto a tutela di tutti i colleghi che subiscono angherie e minacce.

Ma torno, intanto, al tristemente noto Cav. Lav. Dott. (così si firma Gianni Zonin) che mi chiedeva, a favore della Roi, danni milionari credibili e gonfiati come il valore delle azioni della BPVi piazzate a decine di migliaia di risparmiatori ignari a 62,50 euro durante la gestione sua e del suo Cda per poi rivelarsi pezzi di carta da 10 centesimi e forse meno

Il primo processo legato al disastro epocale delle imprese di Gianni Zonin, W la giustizia italiana e vicentina, non si tenne, quindi, contro il sistema di potere vicentino e non solo che ruotava intorno a chi ha tolto dalle tasche di 118.000 soci ben 6.3 miliardi di euro e che solo ora, dal 1° dicembre, avrà alcuni, pochi, suoi esponenti a giudizio, tra cui, oltre a Giuseppe Zigliotto, ex presidente di Confindustria Vicenza, proprio Zonin che, a differenza di Vincenzo Consoli, il suo “omologo” in Veneto Banca, non è stato limitato nelle sue libertà né subito privato dei suoi beni.

Aver denunciato e documentato proprio la mala gestio della Fondazione impoverita da investimenti azzardati in azioni, guarda caso, della Popolare di Vicenza e nell’acquisto dell’altrettanto mal ridotto ex Cinema Corso, tutti fatti da me denunciati con documenti e poi sanciti dal bilancio della Roi che evidenziò un rosso di almeno 24 milioni di euro, costò a me non certo la prima ma neanche l’ultima di una serie di denunce temerarie, fatte per uccidere il giornalismo indipendente a botte di spese legali da sostenere per continuare a raccontare ai lettori la verità e non le sempre più comode e numerose fake news di comodo.

Non è stata la prima volta che io come direttore, quindi tutti come redazione di VicenzaPiù, siamo minacciati, denunciati, censurati, “taccheggiati” al contrario da aziende anche pubbliche che finanziano i media amici e lavorano perché sia zittita la nostra voce viva dal 25 febbraio 2006.

Per aggiornarvi su cosa e quanto subiamo, vi rinvio a un articolo di Marco Milioni che intervista in video anche il nostro avvocato Marco Ellero (“Il j’accuse: quando diventano bavaglio le azioni legali contro i cronisti. Il caso di Giovanni Coviello“)

Io, intanto, esibisco da tempo,  ho già avuto modo di scriverlo, come “medaglie” al valore (per la difesa della libertà di stampa) l’inchiesta contro di me  nata anni fa per “uccidere” sul nascere VicenzaPiù e le uniche due condanne “giornalistiche” finora subite e neanche “opposte” (tanto non ne valeva la… pena essendo una da 800 euro, l’altra da 750 euro) su querela, la prima, dell’ex pm Paolo Pecori e, la seconda, dell’ancora assessore regionale Elena Donazzan, due “nomi” che fanno capire chi siano gli accusatori e chi sia l’accusato e quali potessero essere le loro accuse e quali le nostre azioni a tutela dei lettori…, accuse che rigettiamo, azioni che rivendichiamo.

E siccome a noi piace basare la nostra informazione quotidiana sui fatti, oggi citiamo, noi, Il Fatto quotidiano e il suo primo direttore nonché fondatore, Antonio Padellaro, che inizia il suo libro “Il Fatto Personale” con la pagine che vi proponiamo di seguito.

Se sapessimo scrivere come lui, per rappresentare il nostro modo di intendere la libertà di stampa le avremmo scritte noi le pagine di Padellaro solo riducendo proporzionalmente alla diffusione dei due mezzi, nazionale il suo, locale il nostro, la quantità delle querele e minacce subite e l’ammontare dei danni richiestici (ad oggi circa 1,96 milioni di euro, di cui i primi 1.300.000 già bocciati…).

Non le abbiamo sapute scrivere, ma le sottoscriviamo…

Eccole

Io finirò in galera

Il prezzo della libertà di stampa

Di Antonio Padellaro

Con una certa serenità e rassegnazione non escludo che finirò dietro le sbarre. Non si tratta di esorcizzare l’idea, è solo che il nostro quotidiano web nasce con un atto di fede: siamo un giornale libero, non abbiamo padroni e lo dimostriamo in tutti i modi, forse anche oltre il dovuto. E una linea così costante e determinata ci ha creato nel tempo un esercito di nemici. E di querele e minacce: in poco più di dieci verrà chiesto all’autorità giudiziaria di procedere per ben 471 volte contro il quotidiano in sede penale e civile. Ma, soprattutto, ci verranno richiesti risarcimenti per un totale di 141 milioni di euro. Una cifra tale che, se per ipotesi i giudici italiani si coalizzassero per farci pagare fino all’ultimo euro, il nostro quotidiano chiuderebbe per debiti. Fortunatamente la maggior parte di queste azioni sono destinate a finire nel nulla e molti processi si sono già conclusi a nostro favore. Certo, qualche causa l’abbiamo persa e ci è costata cara!
Insomma, in questo mestiere farsi odiare comporta certamente rischi ma produce anche ebbrezza. Sentirsi alla pari con il potere, e non sui gradini sottostanti dove stanno tutti gli altri, è la molla della professione. Ricordo che quando stiamo per lanciare il nostro quotidiano web Quotidiano, una delle nostre prime riunioni viene dedicata proprio al problema delle cause, soprattutto quelle civili con le relative richieste di risarcimento danni. A metterci in guardia è Bruno Tinti, azionista del giornale ed ex magistrato esperto di leggi sulla diffamazione. «Attenti, uno dei problemi più gravi sarà difendervi dalle maledette citazioni. da noi qualsiasi giudice ha la discrezionalità di autorizzare richieste milionarie di risarcimento. Vuol dire che nel bilancio del giornale c’è una voce con un enorme punto interrogativo, soprattutto se vogliamo fare un giornale di attacco, che non faccia sconti a nessuno». Prendiamo in considerazione perfino l’ipotesi di una testata pirata, con sede in una delle isole della Manica, dove l’extraterritorialità ci permetterebbe di scrivere quel che ci pare, senza essere inseguiti dalla magistratura italiana. Ovviamente, non è possibile e ben presto scopriamo che, purtroppo, Tinti aveva ragione. Ci ritroviamo sommersi dalle querele e io come direttore responsabile – nel caso di condanna – rispondo in solido. Ecco perché rischio costantemente di finire in galera. E se dovessi scegliere tra il carcere o mandare sul lastrico decine di famiglie a causa della chiusura del giornale non avrei dubbi: opterei per la prima evenienza. Magari per un periodo non troppo lungo, sperando nella clemenza della corte!
Una condizione con cui noi del Fatto ci dobbiamo sempre scontrare è che in Italia non è prevista la possibilità di rivalsa sulle cosiddette “querele temerarie”: chiunque può chiedere milioni di euro per una presunta imprecisione senza rischiare nulla. Se l’autorità giudiziaria riconosce l’inconsistenza delle accuse (otto casi su dieci), il querelante non paga alcunché per lo spreco di tempo e di denaro pubblico, oltre che per i falsi addebiti. Anche se, per essere precisi, 1,articolo 96 del Codice di procedura civile, punisce l’autore della querela infondata imponendogli un risarcimento, ma si tratta di una norma blanda e raramente applicata, anche perché il danno deve essere concretamente provato. Se a sbagliare sono i giornalisti è giusto che questi paghino. All’epoca del caso di Alessandro Sallusti, finito ai domiciliari proprio perché dichiarato colpevole di diffamazione, sempre Bruno Tinti è il primo a sostenere che chi vìola le leggi deve essere punito secondo le stesse. È inutile girarci attorno: se veniamo condannati in via definitiva o se preferiamo transare con il querelante, vuole dire una sola cosa: abbiamo lavorato male. Noi giornalisti siamo tutt’altro che infallibili: commettiamo errori anche noi, spesso per ragioni legate all’urgenza del nostro mestiere ma, principalmente, per superficialità.