di Michele Lucivero e Andrea Petracca
Il 25 aprile 1945 è un giorno fondamentale per il nostro Paese, come ricorda Norberto Bobbio, tratteggiando il valore della Resistenza e ponendo i suoi principi ispiratori in relazione a quelli della Costituzione: «Non c’è documento partigiano che non rechi traccia della fede in questi tre ideali della pace tra le nazioni, della libertà personale, della giustizia sociale. Coloro che hanno partecipato alla Resistenza si riconoscono tra loro (…) per i valori che hanno difeso, cioè per la fede che essi hanno riposto nella interdipendenza e nella solidarietà dei tre valori della pace, della libertà e della giustizia contro i mali della guerra, dell’oppressione e del privilegio. Qui bisogna cercare lo spirito della Resistenza. E questo spirito è stato consacrato, o cittadini, nella Costituzione»[1].
Oggi, 25 aprile 2021, Anniversario della Liberazione dal nazifascismo, avremmo dovuto tutti incontrarci per strada con i nostri tricolori e urlare a squarciagola il nostro ringraziamento ai partigiani e ai Padri costituenti che hanno lottato per la Resistenza, per liberarci dal giogo dei fascisti in combutta con i nazisti e ridarci la libertà, la democrazia e il pluralismo e invece…..
E, invece, la prima notizia curiosa di stamattina è, in maniera significativamente ignominiosa, che c’è il via libera della Commissione europea sul Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, contribuendo non poco a modificare l’universo simbolico in cui da anni stanno cercando di catapultarci, sparigliando le carte con parole apparentemente innocue, ma cariche di una potenza semantica che non possono lasciarci indifferenti.
Sono anni, ormai, che tra le espressioni à la page (compresa questa), tra i termini da mettere necessariamente in un discorso che voglia sembrare figo e forbito allo stesso tempo, accanto ad un “piuttosto che” disgiuntivo, non sfuggito nemmeno ai linguisti dell’Accademia della Crusca, usato in maniera assolutamente errata solo per assecondare una moda che dal nord si è diffusa un po’ in tutta Italia, fa bella mostra di sé anche la parola Resilienza.
Dalla pedagogia alla psicologia, dall’etica alla politica, la Resilienza ha lasciato ormai il suo campo semantico specifico, che era quello della fisica, in cui stava ad indicare la «capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi» ed è trasmutato con la sua carica evocativa nei campi più disparati del linguaggio italiano.
È il caso di sottolineare che queste operazioni non sono mai innocue, perché talvolta l’esigenza di mostrarsi all’avanguardia nel linguaggio, circostanza dietro la quale si dovrebbe presumere un’avanguardia del pensiero, sono intraprese perlopiù a cuor leggero, senza porre mente alle trasformazioni antropologiche che quei termini inducono, come se ci fossimo convinti che l’aggiornamento linguistico fosse più importante della pregnanza etica del pensiero.
Ora, se le mutazioni antropologiche di un “piuttosto che” modaiolo non sono poi così gravi, per la funzione specifica che il termine occupa all’interno della lingua italiana, quando si ha a che fare con concetti o costrutti come la Resilienza, la questione diventa un po’ più seria.
Il confronto va fatto, dunque, e non è un caso che ci si trovi a farlo nella giornata del 25 aprile, proprio tra la Resistenza e la Resilienza, per comprendere lo slittamento semantico che dobbiamo subire pur di essere à la page.
Se la Resistenza, infatti, anch’essa legata al campo semantico della fisica, dove indica una «grandezza che misura la tendenza di un corpo ad opporsi al passaggio di una corrente elettrica», evoca, proprio per il significato storico che ha avuto per noi italiani, «un’azione collettiva con la quale si tende a contrastare o impedire l’efficacia di un’azione contraria nel produrre determinati effetti che si reputano collettivamente deleteri», come lo era in effetti il nazifascismo, la Resilienza subisce un depauperamento notevole intanto a livello sociale, giacché obbedisce colpevolmente a quella logica ipermoderna di ripiegamento del soggetto su sé stesso, andando a significare «la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà».
Lo perdita a livello sociale e antropologico in questo slittamento semantico è enorme, il disinteressamento nei confronti di ciò che accade fuori dall’orticello del soggetto, nel suo mondo vitale, non è casuale, ma è significativo di un momento storico di massima indifferenza politica e culturale, di assenza colpevole e programmatica di solidarietà, una logica che lentamente s’insinua in tutti gli aspetti della vita dei soggetti e che ci costringe ad un ripiegamento terribile e iperriflessivo sull’individuo, nella convinzione spicciola che “se ciascuno badasse agli affari suoi, alla fine va meglio per tutti”.
È questa opposizione che oggi appare esausta e pregiudizievole: imparando la Resilienza, piuttosto che la Resistenza (si prenda nota dell’uso corretto del “piuttosto che”) si avallano logiche che assumono progressivamente come valore da sponsorizzare, anche all’interno delle pratiche educative che dovremmo trasmettere ai ragazzi e alla ragazze, questi cambiamenti antropologici, mentre abbiamo dimenticato la capacità di opporci attivamente e, quindi, accettiamo solo di adattarci passivamente a cambiamenti lesivi dei nostri principi più elevati, tra i quali anche quelli della Resistenza, della privazione della libertà sociale e civile.
Intanto, il Piano per la Ripresa e la Resilienza, da consegnare all’EU entro il 30 aprile, farà la sua strada, puntando impunemente sulle priorità strategiche individuate: digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale, almeno così dicono. Nel frattempo, mentre il Piano fa il suo corso, noi osserviamo, resilienti e fieri, l’ennesima strage di migranti, come dire Fiat relisienza et pereat mundus!
[1] Norberto Bobbio, Eravamo diventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2015.
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a cura di Michele Lucivero
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