25 aprile 1945, una data che, col passare dei decenni, sfuma sempre di più nei suoi significati più profondi, specialmente per chi non l’ha sfiorata per la sua giovane età. Oggi (aggiorno “sobriamente” il testo della prima pubblicazione del 25 aprile 2018), 80 anni dopo, per me che ne ho 74 e passa significa ricordare mio padre, Giuseppe, che mi ha lasciato il giorno di S. Valentino del 2018): lui non aderì l’8 settembre 1943 (aveva 21 anni perché era nato il 23 aprile 1922, solo pochi mesi prima della marcia su Roma del 28 ottobre) alla Repubblica di Salò mentre era militare, fu preso, fu messo su un treno merci come una bestia insieme a tanti altri italiani, fu portato in Germania e fu internato nel campo di concentramento di Stettino, nel nord dell’allora Germania nazista che lì deteneva inizialmente i prigionieri polacchi rastrellati durante la Campagna di Polonia nel 1939.
Per sopravvivere a lavori forzati, maltrattamenti e fame, mi raccontava, mangiava anche i funghi che crescevano su pali e staccionate, incurante che fossero commestibili o tossici se non velenosi. Si svegliava ogni mattina col terrore di scoprire accanto a lui, come spesso succedeva, altri morti di inedia e di sfinimento. Quel terrore era superiore a quello di morire lui stesso, perché la morte, forse, sarebbe stata la fine anticipata di mille sofferenze.
Mio padre era monarchico con un grande senso dello Stato, della morale, in generale, e dell’onestà, in particolare, e, dopo aver “ubbidito” al Re e alle sue scelte, non “potè” aderire all’ennesima violenza di Benito Mussolini contro quello che nei suoi discorsi era il “suo popolo”, suo di proprietà ma non di amore visto dove lo condusse arrivando a sottomettersi, lui, il duce, al dittatore nazista.
Mio padre, a 21 anni, fu internato a Stettino ma fu fortunato… Si ammalò gravemente e rientrò, tra pochissimi ma non dichiarandosi mai come “l’unico“, in Italia in un contingente di deportati che la Croce Rossa, chissà grazie a quali accordi e mediazioni, riuscì a riportare in patria proprio per le loro condizioni.
Mio padre tornò al suo, e poi mio, paese, Castelforte, nel sud del Lazio ai confini con la Campania, pesando 39 chili, giurando a se stesso di non mangiare e di non far mangiare funghi alla sua futura famiglia, diventò liberale (del Partito Liberale Italiano) leggendo Il Tempo, finché non gli portai il 15 gennaio 1976 (io avevo meno di 26 anni) il secondo numero di Repubblica e, un po’ alla volta, cominciò a leggerla fino a far diventare quel giornale il suo giornale e la guida per il suo pensiero, diventato laico e riformista ma sempre liberale.
Ecco ai giovani, se i vostri vecchi non lo hanno fatto, io dico: leggete questa piccola storia di un piccolo, per me grande, uomo e prendetene spunto, prima di fare altro, per studiare (anche sul web, oggi è facile e nulla costa se non il tempo di scorrere Wikipedia, un’enciclopedia online scritta da tutti ma “controllata” da tutti per non leggervi le idiozie dei social) cosa sono le guerre di oppressione, gli omicidi di oppositori del regime, la loro espulsione dai ruoli che avevano nella società, l’olio di ricino, i manganelli, i lager, le deportazioni non solo di ebrei ma di chiunque la pensasse diversamente.
Informatevi su cosa significhino date come il 28 ottobre 1922, l’8 settembre e il 25 aprile… ma anche altre date, quelle delle foibe, per esempio, che devono essere riunite nello spirito della condanna delle oppressioni e delle violenze, fisiche e mentali, che ne derivano.
Una volta informati non odiate nessuno dei vostri coetanei, viveteci insieme con gioia e senza necessità di riconciliazione perché voi mai vi siete divisi per quelle oppressioni e quelle morti e sarebbe un insulto a voi stessi farlo ora senza sapere perché ma solo deglutendo, prima, ed eruttando, poi, i falsi slogan di chi vi usa, così come molti di noi trasformano in verità le fake news dei social.
Ma conosciate il passato, questo vi insegnerebbe mio padre che poi ha sempre insegnato a migliaia di studenti nella sua vita di professore, per non farlo tornare così come si manifestò: se non ci riflettete in tempo e se non vi comportate di conseguenza quel passato, che già oggi, prepotente, torna sotto varie forme in molti Paesi, potrebbe diventare “presente” e “internarvi” nei peggiori campi di concentramento modernizzati, ma identici a quelli su cui si basano le dittature, tutte, bisogna dirlo: i lager della mente e della libertà di essere persone.
Oggi io ricordo così mio padre, specialmente ai giovani, che possono evitare o liberarsi dalle scorie dei vecchi, e lo immagino festante il 25 aprile 1945, due giorni dopo il suo ventitreesimo compleanno, poca cosa rispetto al primo giorno di liberazione e libertà, e non sobriamente come vorrebbero oggi, con il pretesto della morte di papa Francesco, Uomo festante per natura, quelli che quel passato non lo condannano apertamente pur essendo al potere grazie alla democrazia anti e post fascista.
Lo ricordo così Giuseppe Coviello, figlio e… padre di Giovanni, e, in nome suo che sopravvisse all’orrore, dedico a chi fu privato della vita (e a chi ne fu privato poi e ancora oggi muore in ogni luogo della terra sempre in guerra) questa poesia di Roberto Lerici, recitata nel video da Gigi Proietti e suggeritami nel 2018 da Giorgio Langella nella speranza che in futuro si debbano sempre meno imbracciare le armi per conquistare la libertà.
Aggiungo all’invito a leggerla pensando alla parola “partigiano” come a chi parteggia per la libertà, che non ha colori, seguendo questo mio modesto pensiero che guida il mio 25 aprile, che festeggio ogni giorno di ogni anno, felice della libertà che ha portato nel 1945 a tutti, proprio tutti, anche a quelli che lo vorrebbero, sobriamente, cancellare perchè simbolo solo di “una parte” invece di provare, tutti insieme, a farlo diventare il giorno della libertà per tutti.
Non esistono, ecco il mio “scandaloso” pensiero, le dittature buone e quelle cattive ma è dittatura da rifuggire ogni tentativo di limitare la libertà di pensiero, parola e azione.
Così come non esistono le guerre giuste o sbagliate, ma solo le guerre che uccidono, feriscono e storpiano militari, civili e bambini.
Ma nella dittature e nelle guerre, anche quelle di liberazione, che storicamente abbattono le dittature, talvolta anche per instaurarne delle altre apparentemente diverse, vive e prolifera l’odio degli uni contro gli altri e tutti dimenticano di essere umani diventando disumani.
Mio padre è morto a 18 anni partigiano
Mi’ padre è morto partigiano
a diciott’anni fucilato ner nord, manco so dove;
perciò nun l’ho mai visto, so com’era
da quello che mi’ madre me diceva:
giocava nella Roma primavera.
Mo l’antra notte, mentre che dormivo,
sarà stato due o tre notti fa,
m’e’ parso de svejamme all’improvviso
e de vedello, come fusse vero;
sulla faccia c’aveva un gran soriso,
che spanneva ‘na luce come un cero.
– Ammazza, come dormi – m’ha strillato,
era proprio lui, ne so’ sicuro,
lo stesso della foto che mi’ madre
ciaveva sur comò, dietro na fronda
de palma tutta secca, benedetta,
un regazzino, che ride in camiciola,
cor fazzoletto rosso sulla gola.
Ma siccome sognavo i sogni miei,
pe’ la sorpresa j’ho chiesto: – Ma chi sei?-
– So’ tu’ padre – ma detto lui ridenno
– forse che te vergogni alla tua età
de chiamamme cor nome de papà? –
– No, papà, te chiamo come hai detto,
me fa ride vedette ar naturale,
scuseme tanto se me trovi a letto,
che voi sape’? Nun me posso lamenta’,
nun so’ un signore, trentadu’ anni,
davanti c’ho na vita,
ancora nun è chiusa la partita. –
Lo sai, da quanno mamma s’è sposata
co’ mi’ padre, che invece è er mi’ patrigno…
credo sett’anni dopo la tua morte… –
A ‘ste parole ho visto che strigneva un poco l’occhi,
come quanno se sta ar sole troppo forte.
– Scusa papa’, credevo lo sapessi –
Ma lui, ridenno senza facce caso,
spavardo, spenzierato, m’ha risposto:
– Ma che ne so io de quello che è successo,
io so’ rimasto come v’ho lassato,
quanno giocavo, giocavo, giocavo…
giocavo a calcio e mica me stancavo,
giocavo co’ tu madre e l’abbracciavo,
giocavo co’ la vita e nun volevo,
coi fascisti però nun ce giocavo,
io sparavo, sparavo, sparavo. –
Poi m’ha toccato i piedi dentro al letto
e ha fatto un cenno, come da di’ – Sei alto! –
– E dimmi – dice – prima d’anna’ via,
che n’hai fatto della vita
che t’ho dato giocanno co la mia…
Vojo sape’ sto monno l’hai cambiato?
Sto gran paese l’avete trasformato?
L’omo novo è nato o nun è nato?
In qualche modo c’avete vendicato?
– e rideva co’ l’occhi, coi capelli,
sembrava quasi lo facesse apposta.
Me sfotteva, capito, quer puzzone
rideva e aspettava la risposta.
– Ma tu che voi co’ tutte ‘ste domanne?
Mo’ perché sei mi’ padre t’approfitti.
Tu m’hai da rispetta’, io so’ più grande!
Va beh adesso accampi li diritti
perché sei partigiano fucilato…
ma se me fai sveja’ io t’arisponno,
mabbasta solo che aripijo fiato.
Certo che la vita è migliorata!
Avemo pure fatto l’avanzata.
Travolgente hanno scritto sui giornali. –
– Mejo così – me fa – se vede che è servito…
vedi quanno che m’hanno fucilato
Nun ho strillato le frasi de l’eroi
pensavo a voi che sullo stesso campo
avreste certo vinto la partita
pure che io perdevo er primo tempo. –
– No, un momento papà, te spiego mejo…
nun è che avemo proprio già risorto
nella misura in cui ci sta er risvorto emh…
E allora quer ragazzo de mi’ padre
che stava a pettinasse nello specchio
s’arivorta me fissa e me domanna:
– Ma insomma, adesso er popolo comanna?-
Qui so zompato sur letto, co’ na mano
m’areggevo le mutanne, co’ l’altra
cercavo de toccallo, e nun potevo.
Allora j’ho parlato,
perché m’aveva preso come ‘na malinconia
e nun volevo che se ne annasse via
prima de sape’ bene come è stato.
– Sei ragazzo, papa’, come te spiego
nun poi capi’ come cambia er monno..
Ce vole tempo, er tempo se li magna
i sogni nostri, io, sai che faccio, aspetto!
Tutto quello che viene, io l’accetto,
semo contenti se la Roma segna,
li compagni so’ tanti e li sordi pochi…
e nun ce sta più tempo pe’ li giochi! –
– Ma so’ sempre quelli te strappano le penne,
ma tu nun poi capi’ papa’, sei minorenne,
se eri vivo te daveno trent’anni,
mejo che torni da dove sei venuto,
perché quelli che t’hanno fucilato,
proprio quelli lì qui te fanno mori’ tutti li giorni!
Lassa perde papà, qui nun e’ aria,
semo cresciuti…nun semo piu’ bambini,
torna a gioca’ co’ l’artri regazzini
che hanno fatto come hai fatto tu,
noi semo seri…e nun giocamo più.
A ‘sto punto mi padre s’e’ stufato,
ha fatto du’ spallucce, un saluto,
s’è rimesso in saccoccia la sua gloria
e vortanno le spalle se n’e’ annato
ripetendo nel vento la sua storia:
– Ma che ne so io de quello che è successo,
io so’ rimasto come v’ho lassato,
quanno giocavo, giocavo, giocavo…
giocavo a calcio e mica me stancavo,
giocavo co’ tu’ madre e l’abbracciavo,
giocavo co’ la vita e nun volevo,
coi fascisti io però nun ce giocavo…
io sparavo, sparavo, sparavo.