«Andare lenti è il filosofare di tutti, vivere ad un’altra velocità, più vicini agli inizi e alle fini, laddove si fa l’esperienza grande del mondo, appena entrati in esso o vicini al congedo. Andare lenti significa poter scendere senza farsi male, non annegarsi nelle emozioni industriali, ma essere fedeli a tutti i sensi, assaggiare con il corpo la terra che attraversiamo. Andare lenti vuol dire ringraziare il mondo, farsene riempire»[1].
Nella Giornata della Lentezza le parole di Franco Cassano, scomparso qualche giorno fa, ci sembrano riecheggiare con tutta quella fiacca meridia, tanto arcaica quanto calda, che si annida già nelle parole e poi si trasmette sulla pelle come sensazione di indolenza fisica.
Questa necessità ordinatrice che fa il pari con la sistematica distinzione, spesso frettolosa, delle scienze, che devono essere esatte per essere credibili, facevano di Franco Cassano un sociologo, eppure le pagine che egli ha dedicato all’infinito che si respira davanti al mare, alla stupidità dell’integralismo della corsa competitiva del capitalismo, che poi genera solo perdenti, trasudano poesia, sconfinano nella filosofia e si radicano fortemente nell’etica, perché, in fondo, era questo quello che Cassano auspicava: un cambio di direzione nei comportamenti degli uomini e delle donne.
La sua difesa del sud, come stile di vita, l’urgenza di mettersi in ascolto della natura e dell’altro, non è una mera presa di posizione campanilistica, ma appare come una necessità storica ed economica, una inversione di tendenza, che ha spostato storicamente l’attenzione e politicamente il centro del mondo verso il “volano” dell’economia pulsante a discapito delle scorie smorte, degli scarti spenti, dei rifiuti rifilati ad una periferia colpevole perché povera.
È così che la lentezza meridiana è diventata un concetto profondamente etico ed economico, da difendere e sostenere a caro prezzo[2], come scriveva don Tonino Bello, un altro uomo del sud, non a caso amico di Franco Cassano, che ha speso anche il suo ultimo giorno di vita per testimoniare da “don”, non da vescovo, quale fu, il suo impegno nei confronti degli ultimi e degli emarginati, rendendoci incredibilmente vicino e simpatico il suo cristianesimo rivoluzionario “con il grembiule”[3] e il pastorale in legno d’ulivo.
La vera sfida oggi, davanti al tritacarne del capitalismo globale e della politica insensibile, è quella di esibire con fierezza la propria lentezza, quell’indolenza meditativa che si mostra indisponibile allo sfruttamento degli uomini e delle donne come delle risorse naturali, della terra, del cielo, del mare.
Occorre trovare il coraggio per prendere finalmente la parola e dire con consapevolezza: «voglio stare fermo», «voglio viaggiare solo per il piacere viaggiare»; nessun esodo forzato deve avvenire per motivi politici, etnici, economici, per la necessità di produrre per tutta la vita, mentre la vita stessa sfuma senza lasciarci il tempo di coltivare la conoscenza, l’amore e le relazioni umane. Si tratta di aspetti dell’esistenza che non possono essere autentici, se non nell’abbandono della logica dell’efficienza e dell’appropriazione immediata, dimensioni che devono essere restituite, invece, all’aleatorietà che solo il tempo e la pazienza possono riempire di senso.
E questa liberazione del tempo, al fine di uscire dal turbinio del «lavorare di più per consumare di più» e apprezzare il piacere dell’otium e della lentezza è anche un tema caro all’economista Serge Latouche[4], per il quale la scelta della decrescita, della frugalità come stile di vita felice diventa una necessità per rimediare al mito dello sviluppo infinito, una es-crescenza tutta occidentale, che determina una situazione di debito continuo che si autoalimenta.
Accanto a queste personalità bisogna trovare il coraggio per uscire dalla logica della lentezza meridia come un aspetto deteriore del folklore deculturato o della rilassatezza turistica: anche quel gesto autentico, che passa attraverso la bellezza del mangiare un pasto autoprodotto, frugale nella solitudine per essere poi abbondante e infinito nella compagnia, è un valore, è cultura, è un’etica della finitudine scolpita in uno stile di vita che esibisce un sorriso sarcastico e si fa beffe del tempo umanamente scadente speso nel turbinio egoistico della produzione per l’appropriazione che ha il suo corrispettivo nel fast food.
È proprio il coraggio che la lumaca di Luis Sepulveda[5], un altro uomo del sud, trova per fare della lentezza il valore che trasforma la vita in una favola. E, come tutte le favole, anche qui, oltre a cercare di divertire i bambini, educandoli al rispetto del mondo animale, il monito di Sepulveda va agli adulti, ormai solo produttori e consumatori, per ricordargli che, nell’epoca della corsa sfrenata al consumo e alla competizione capitalistica, la fiamma interiore arde finché c’è calore, passione, alterità, fede e carità per alcuni, comunità e solidarietà per altri.
Alla fine, anche noi, come la lumaca Ribelle di Sepulveda, chiamata così perché fa sempre domande scomode, dovremmo imparare ad apprezzare il valore supremo del degustarci l’esistenza, i luoghi, il mare, il sole, ma purché lo si faccia in compagnia e in pace con tutto il tempo che la vita, come il buon vino, richiede per invecchiare bene.
[1] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 14.
[2] A. Bello, Sud a caro prezzo. Il cambiamento come sfida, la meridiana, Molfetta 2007.
[3] A. Bello, La chiesa del grembiule, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2011.
[4] Cfr. S. Latouche, D. Harpagès, Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Elèuthera, Milano 2011.
[5] L. Sepulveda, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, Guanda, Milano 2013.
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a cura di Michele Lucivero
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