Fra i tanti faldoni che contengono i documenti relativi al procedimento penale pendente innanzi al Tribunale di Treviso (a carico di Vincenzo Consoli, unico imputato per i reati previsti e puniti dagli artt.2637cc, 2638cc , 173 bis D.L.vo 58/1988) è emerso (vedi copertina) un significativo accordo scritto fra le Procure di Roma e di Treviso, conseguente ad una riunione (del 21 ottobre 2014) fra i pubblici ministeri dei due Uffici, assistiti da ufficiali della Guardia di Finanza.
In esso si dà atto dell’esistenza di due distinti procedimenti (n. 6966/14 mod. 21, a Treviso e n. 40735/14 mod. 44, a Roma) relativi, entrambi, alla vicenda di Veneto Banca e si stabilisce un “coordinamento investigativo e informativo costante nello sviluppo successivo delle indagini”, con temporaneo mantenimento, per esse, della competenza territoriale a Treviso, con riferimento al reato di cui all’art. 2637 c.c. (“aggiotaggio bancario”) e a Roma, per quello di cui all’art. 2638 c.c. (“ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”); il PM di Treviso avrebbe dovuto trasmettere al collega di Roma uno stralcio del suo fascicolo (il n. 6966/14) per eventuali notizie di reato prospettabili nell’ambito dell’art. 2638 c.c., per il quale la Procura di Roma avrebbe, comunque, mantenuto la competenza territoriale. Il presupposto logico (ed esplicitamente dichiarato) dell’accordo era la connessione fra i due procedimenti (che, infatti, riguardavano gli stessi imputati e gli stessi eventi, ancorchè in due diverse prospettive di illegittimità comportamentale).
La prima conseguenza pratica di questo singolare accordo è stata che lo stesso imputato nelle due distinte ipotesi di reato ha dovuto difendersi separatamente, a Roma e a Treviso, pur se riferite alla medesima vicenda, svoltasi nel medesimo periodo e nel medesimo contesto fattuale e con il concorso delle medesime persone… E tutto questo perché le due Procure avevano sancito un accordo sulla loro competenza: come se essa fosse negoziabile e fosse, quindi, identificabile in base ad intese fra PM e non a precisi e vincolanti parametri fissati dal codice di rito.
Se fossero esistiti dubbi sulla connessione fra i due procedimenti o se ci fosse stato un contrasto fra le due Procure, avrebbe potuto essere attivato il rimedio della risoluzione dei conflitti di competenza previsto dagli artt. 54 segg. c.p.p., attraverso il ricorso alla Procura Generale. Ma non è consentito che due diversi uffici giudiziari inquirenti si accordino per ripartirsi gli spazi di indagine relative ad una stessa vicenda; men che meno per una loro comodità (od opportunità) investigativa, pur se con l’impegno della reciproca costante informazione. Se la vicenda è unica, ancorchè scomponibile in diverse ipotesi di reato, è un unico ufficio di Procura che deve indagare: che è quello individuabile in virtù della corretta applicazione dei (vincolanti e non derogabili) parametri stabiliti dal codice.
Nel caso concreto, è, in seguito, accaduto che il PM trevigiano (proprio quello che aveva sottoscritto l’accordo) ha riconosciuto l’esistenza della connessione (ma guarda caso…) e, a indagini da tempo avviate, ha deciso, proprio in ragione della sua esistenza, di trasmettere tutti gli atti alla Procura di Roma. Poi, il GUP del Tribunale della Capitale, riconosciuta l’(evidente) insussistenza della competenza di Roma, ha, a sua volta, trasmesso tutti gli atti all’Ufficio della Marca; così suscitando la preoccupazione (per la vicina prescrizione) del responsabile di quest’ultimo, che pur aveva sottoscritto il medesimo accordo …
Ci si deve, allora, chiedere perché sia stata consumata una simile anomalia processuale. Ovviamente, nessuno si è sforzato di azzardare una risposta logica, credibile e giuridicamente corretta, alimentando così il dubbio che essa sia stata una voluta forzatura: sia stata, cioè, il frutto dello sforzo della Procura di Roma di tenere la vicenda sotto il suo diretto controllo, fin dall’inizio, proprio per evitare il rischio che i capi di imputazione relativi al disastro di Veneto Banca fossero, magari, formulati da un Pubblico Ministero intenzionato ad ipotizzare un coinvolgimento, in questa grave vicenda, anche di qualche Istituzione avente sede a Roma, e che avesse, dunque, il desiderio di evitare questa eventualità.
Così si spiegherebbe la repentina (e sospetta) nomina, da parte del PM romano, di un suo fidato CT di parte, che si è poi particolarmente impegnato nell’interpretare il proprio ruolo come comprensivo del compito di attribuire a Vincenzo Consoli (e ai suoi presunti amici) tutta la responsabilità dell’accadimento, pensando forse, con ciò, di guadagnarsi qualche merito presso il proprio datore di lavoro. Tant’è che, nel procedimento penale ora pendente a Treviso (ma istruito anche a Roma), si è costituita parte civile proprio quell’Istituzione (Bankitalia) nel cui organico milita la persona che ha svolto il ruolo di consulente tecnico di parte del Pubblico Ministero: cioè di Pubblico Ufficiale tenuto a ricercare la “verità” e ad essere imparziale, svolgendo attività di indagine anche a favore della persona indagata (art. 358 cpp).
Non ci sarebbe altrimenti modo di spiegare lo scempio del diritto processuale penale consumato con un accordo fra due procure sulla competenza ad indagare per reati connotati da una connessione, non solo evidente, ma anche esplicitamente riconosciuta.
Ma, almeno, non ci si venga, ora, a spiegare questa contorsione processuale con la carenza di organico di un ufficio giudiziario …
Giovanni Schiavon
ex magistrato, già presidente dei tribunali di Belluno e di Treviso