Il vantaggio competitivo di Intesa Sanpaolo per poter acquisire le banche venete per un euro
Il D.L. 99 del 25 giugno 2017 ha disposto la liquidazione coatta amministrativa (LCA) per BPVI e Veneto Banca, imponendo l’obbligo di cessione, in blocco o parziale, delle aziende o loro rami ad un soggetto da individuarsi a cura dei liquidatori ai sensi dell’art. 3, comma 3, del predetto Decreto (articolo pubblicato la prima volta il 12 marzo 2019, ndr). Tale soggetto è stato quindi individuato, nel volgere di solo qualche ora, in Banca Intesa Sanpaolo visto che il contratto di cessione è stato stipulato (di buon mattino) il successivo 26 giugno 2017.
Ora, pensare che un’operazione così complessa e complicata possa essere compiutamente valutata in tempi così ristretti pare alquanto difficile crederlo e qui si spiega come mai oltre a Intesa Sanpaolo non ci fossero players alternativi o, se ci fossero stati, come (non) avrebbero potuto fare le loro doverose verifiche e proposte su un’operazione, come detto, così complessa.
Quale vantaggio aveva Banca Intesa Sanpaolo per essere, invece, riuscita nell’intento?
Semplice, Intesa Sanpaolo aveva già svolto una due diligence sul gruppo Veneto Banca nel periodo dal settembre 2015 all’aprile/maggio 2016. Era una due diligence condotta tramite la propria controllata Banca IMI che era stata incaricata da Veneto Banca di svolgere il ruolo di consulente in qualità di Global Coordinatore Bookrunner nell’ambito dell’operazione di aumento di capitale di un miliardo di euro effettuata nel giugno 2016 (per opera, come noto, del solo Fondo Atlante di cui, tra l’altro, Intesa Sanpaolo era il principale sottoscrittore) ed aveva altresì l’incarico di Sponsor per lo svolgimento delle attività connesse alla quotazione di Veneto Banca sul mercato telematico azionario (MTA).
In tale ruolo Banca IMI, in proprio e tramite suoi consulenti legali esterni, aveva quindi svolto una dettagliata due diligence legale e di business sul gruppo di Montebelluna secondo prassi di mercato per operazioni analoghe (aumento di capitale e quotazione), inclusiva di documentazione esaustiva in merito alle analisi ispettive e/o agli interventi di vigilanza effettuati sul gruppo da qualsiasi Autorità (1).
Ne consegue che questo era il vantaggio competitivo, rispetto ad altri players, di cui godeva Banca Intesa Sanpaolo nel valutare l’operazione banche venete, anche in considerazione del fatto che, essendo BPVI e Veneto Banca similari per struttura e caratteristiche di business, conosciuta una banca nel dettaglio sia abbastanza semplice e verosimile simulare per analogia anche l’altra, ancorché con tutti i gradi di approssimazione che inevitabilmente ciò comporta.
Risultato, ISP è riuscita a formulare una proposta, mentre altri players non hanno potuto fare altrettanto.
L’operazione di cessione a Intesa Sanpaolo
Come è avvenuta la cessione delle attività a Intesa Sanpaolo?
Semplice: la proposta di Intesa Sanpaolo è stata quella di acquisire solamente le attività “buone” delle due banche venete, lasciando in LCA gli attivi “meno buoni” o problematici.
Per fare questo, ha tuttavia richiesto che i propri coefficienti patrimoniali non subissero contraccolpi negativi, tant’è che lo Stato ha acconsentito ad erogare ad Intesa Sanpaolo un contributo fino ad un massimo di Euro 3,5 miliardi (2).
Tale contributo di Euro 3,5 miliardi era quindi finalizzato al mantenimento di un coefficiente CET1 del 12,5% sugli attivi oggetto di cessione (3), cioè lo stesso coefficiente che presentava Intesa Sanpaolo nella propria relazione trimestrale del marzo 2017 (4)•
Peraltro, tale contributo doveva essere riconosciuto in via definitiva e non sarebbe stato rimborsabile o restituibile da parte di Intesa Sanpaolo (5)•
Nella sostanza, Intesa Sanpaolo riceveva i soldi dallo Stato, iscriveva questi soldi a Conto Economico come plusvalenza non tassabile e non come capitale con emissione di azioni-
E va bene, se così è previsto, nulla quaestio.
Il vero problema nasce tuttavia nella LCA, perché lo Stato con il buon Decreto 99/2017, nel dare con una mano ad Intesa Sanpaolo il suddetto contributo di Euro 3,5 miliardi senza ricevere nulla in cambio, con l’altra mano provvede ad iscrivere un suo credito verso le due LCA di BPVI e Veneto Banca.
Ma come? Pazienza che BPVI e Veneto Banca cedono ad Intesa Sanpaolo i loro attivi “buoni” senza ricevere alcunché in cambio (un euro è il prezzo pagato, cioè 50 centesimi a ciascuna delle due banche), ma le hanno dato pure soldi per cedere quegli attivi, visto che lo Stato pretende di essere creditore per la cifra di 3,5 miliardi di Euro.
È come andare dal concessionario a comperare un’auto nuova e oltre a non pagarla ci vediamo rimborsare dal concessionario il prezzo della stessa auto! Concettualmente è una cosa assurda.
Ma non basta! Intesa Sanpaolo fa di più!
In sede di bilancio 2017, quindi entro i 12 mesi previsti dal principio contabile IFRS 3, Intesa Sanpaolo esegue la cosiddetta PPA (Purchase Price Allocation), cioè la determinazione del costo dell’acquisizione e la sua allocazione fra i conti patrimoniali, e cosa ne esce?
Ne esce che il valore dell’acquisizione è ovviamente pari a “zero” (cioè l’euro pagato), ma il valore attributo alle attività ed alle passività acquisite fa emergere un plusvalore netto complessivo, detto anche “badwill” in termine tecnico, di ben 363 milioni di Euro.(6)
Ma come? Intesa Sanpaolo paga un euro e poi dice che c’è un plusvalore di 363 milioni di Euro ed iscrive tale plusvalore a Conto Economico ai sensi dell’IFRS 3 ritenendolo sostanzialmente un “buon affare”?
Tra l’altro non bisogna tralasciare che è proprio l’IFRS 3 che impone di rilevare il valore delle attività e passività solo se è possibile valutarne il fair value “attendibilmente”.
In pratica a giugno 2017 ISP non era stata in grado di valutare questo valore, ma 6 mesi dopo si; o meglio, forse Intesa Sanpaolo l’aveva valutato correttamente anche a giugno 2017, ma non lo avevano fatto i venditori che hanno concluso un contratto che prevedeva il corrispettivo di “un euro”.
È logico quindi pensare che se fosse stata fatta una valutazione più appropriata, il corrispettivo a favore di BPVi e Veneto Banca avrebbe dovuto essere di “363 milioni ed un euro”, o perlomeno il contributo di Euro 3,5 miliardi erogato dallo Stato a ISP – che per come previsto dal Decreto è a carico della LCA e cioè dei soci e creditori delle due banche venete – avrebbe dovuto essere inferiore di almeno 363 milioni, visto che questi sono andati ad incrementare ulteriormente il patrimonio di Intesa Sanpaolo.
E così pure lo è per i crediti, cosiddetti “high risk”, che potenzialmente Intesa Sanpaolo si è riservata di poter retrocedere per massimi euro 4 miliardi fino all’approvazione del bilancio che si chiuderà al 31 dicembre 2020 (cioè a circa 4 anni dalla data di cessione). Come dire, se entro questi 4 anni quei crediti non sono buoni, te li retrocedo e mi rifondi il valore del credito.
Ma diciamocelo, in 4 anni un’azienda fa a tempo a nascere, crescere e morire, soprattutto se non è gestita bene sotto il profilo finanziario; ora, poiché la gestione ce l’ha di fatto Intesa Sanpaolo, se Intesa Sanpaolo la gestisce bene e il cliente è sano ha diritto a tenerselo, ma se Intesa Sanpaolo lo gestisce male ed il cliente, anche a causa della cattiva gestione di Intesa Sanpaolo, va in default, Intesa Sanpaolo ha diritto di attivare la garanzia e retrocedere il credito alla LCA.
Forte! Nel panorama bancario/finanziario un contratto del genere è unico e innovativo, non si è mai visto; sono 4 anni, non 18 mesi o al massimo 24 mesi, bensì 4 anni.
E peraltro, a fronte dei crediti “high risk” che eventualmente fossero restituiti (7) non è prevista anche la restituzione dell’equivalente somma di capitale che è stata fornita sotto forma di contributo per mantenere i coefficienti al 12,5%. Eh no, perché l’atto di cessione prevede che tale contributo fosse “riconosciuto in via definitiva e non sarà rimborsabile o restituibile”. Come detto, era Gratis et amore Dei, e così deve rimanere per sempre.
L’utile, la sua distribuzione e i coefficienti di Intesa Sanpaolo
Altro fatto che fa riflettere.
Intesa Sanpaolo ha chiuso il bilancio 2017 con un risultato netto consolidato di Euro 7.316 milioni, frutto del risultato proprio, di 3,5 miliardi di contributo dello Stato e di 363 milioni di plusvalore derivante dalla valutazione degli acquisiti rami d’azienda delle due banche venete.
Quindi, l’utile “normalizzato” di Intesa Sanpaolo al netto di queste due componenti straordinarie sarebbe stato di Euro 3.453 milioni che, al netto del monte dividendi proposto in distribuzione in assemblea (complessivi euro 1.354 milioni) è andato ad incrementare il proprio patrimonio di vigilanza (consolidato) per circa Euro 2,1 miliardi.
Si deve ammettere che questi numeri, da soli, se rapportati agli attivi propri di Intesa Sanpaolo avrebbero comunque elevato il suo coefficiente di vigilanza (CET1) ad una soglia sicuramente superiore al 12,5% evidenziato al 31 marzo 2017.
Ma cosa sarebbe stato se Banca Intesa Sanpaolo non avesse deciso di distribuire un dividendo straordinario di Euro 2,065 miliardi prelevandolo dalle “riserve” ove era confluito il citato contributo dello Stato di Euro 3,5 miliardi?
La risposta è semplice: Intesa Sanpaolo avrebbe avuto un coefficiente di vigilanza sicuramente superiore al 14%, altro che 12,5% stimato sugli attivi delle due banche venete per determinare il contributo da parte dello Stato.
Da qui la decisione di distribuirne una parte (e che parte, il 60%!) che, guarda caso, sembra essere giusto la somma eccedente rispetto al contributo effettivo che le avrebbe permesso di mantenere invariati i propri coefficienti rispetto all’operazione “banche venete”. In pratica Intesa Sanpaolo avrebbe raggiunto il 13,3% di CET1 senza banche venete, ed al 13,3% è giunta con le banche venete distribuendo però l’eccedenza sotto forma di dividendo.
E per come è stata congegnata “architetturalmente” l’operazione, come sopra illustrata (Decreto, modalità di cessione, atto di cessione, ecc…), chi alla fine ha pagato il dividendo straordinario andato ai soci di Intesa Sanpaolo sono state le due banche in LCA, o meglio, i soci delle due banche in LCA.
Complimenti, splendida operazione, tecnicamente ineccepibile, con buona pace di chi ne ha tratto i frutti e di chi ci ha rimesso i denari. Da monumento “alla gloria” per i primi, “ai caduti” per i secondi.
A questo punto un dubbio permane: è Banca Intesa Sanpaolo che ha salvato le banche venete o è la parte “buona” delle banche venete che ha arricchito Intesa Sanpaolo?
(1) Cfr. Capitolo XXII – Contratti rilevanti, punto 14, pag. 1026, del Prospetto Informativo relativo all’offerta in opzione e all’ammissione a quotazione sul mercato telematico azionario organizzato e gestito da Borsa Italiana S.p.A., depositato in Consob in data 7 giugno 2016, prot. n. 0052874/16.
(2) Cfr. art. 4, comma 1, lett. b, del Decreto 99/2017.
(3)Cfr. punto 2.43 dell’atto di cessione del 26 giugno 2017. In pratica gli RWA sono stati conteggiati in Euro 26,4 miliardi che al 12,5% corrispondono ad un patrimonio di Euro 3,3 miliardi, a cui è stato aggiunto un ulteriore importo di Euro 0,2 miliardi corrispondente agli effetti stimati dell’applicazione del nuovo principio IFRS 9 ai crediti ceduti, che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio 2018.
(4)Cfr. Resoconto intermedio ISP al 31 marzo 2017, pag. 51.
(5) Cfr. punto 2.4.2 dell’atto di cessione del 26 giugno 2017
(6) Cfr. Bilancio ISP 2017, pagg. 34-39 e pagg. 466-473.
(7) Dal Bilancio 2017 di ISP si rileva che già nel corso dell’anno 2017 sono stati oggetto di restituzione crediti per circa Euro 314 milioni (cfr. pag. 37 del bilancio ISP).
(8) Cfr. pag. 547 del Bilancio 2017 di ISP dove si legge: “Tenuto conto che l’utile netto consolidato relativo a/l’esercizio 2017 è pari a 7.316 milioni e tenuto conto della assegnazione a riserva straordinaria del citato contributo pubblico di 3,5 miliardi, vi proponiamo altresì di deliberare una parziale distribuzione della Riserva sovrapprezzo … per un importo complessivo di Euro 2.065.450.088,96”.