Il ritiro precipitoso e spaventato degli Stati Uniti – dei suoi diplomatici, civili e soldati dall’Afghanistan – significa il clamoroso fallimento di decenni di strategia americana. Promette di rendere il futuro del Paese un incubo, con conseguenze particolarmente disastrose per le donne afghane, il sistema educativo, la salute, i diritti umani e il processo di riabilitazione. Ma il periodo buio che attende l’Afghanistan sotto il dominio talebano non esclude la possibilità di costruire relazioni di livello internazionale, quelle che darebbero legittimità ai talebani ma forse contribuirebbero ad attutire il previsto colpo di frusta sulla società civile afghana.
I talebani avevano già acquisito legittimità quando l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump li riconobbe come partner nei colloqui diplomatici sul futuro dell’Afghanistan e firmò con loro un accordo che cercava di regolare, tra l’altro, la divisione del potere politico tra loro e il legittimo governo afghano. Ora l’Amministrazione di Joe Biden annuncia che gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità “dell’Emirato islamico dell’Afghanistan” come si definiscono i talebani, ma la stessa firma di quel accordo – la liberazione di 5.000 talebani detenuti e la fine degli attacchi alle forze Usa in cambio del ritiro – il 29 febbraio dell’anno scorso, è di fatto un certificato di legittimità.
Gli Stati Uniti non sono l’unica potenza che ha mantenuto canali aperti con i talebani. Russia e Cina quest’anno hanno ospitato rappresentanti del movimento e hanno tenuto e stanno tenendo – a Mosca, a Pechino e Kabul – colloqui sulla costruzione e il rafforzamento dei legami economici. Arabia Saudita, India, Pakistan, Iran ed Emirati Arabi Uniti hanno aiutato – economicamente e militarmente – i talebani nel corso dei questi anni e adesso sperano di raccogliere i frutti dei loro investimenti.
Le relazioni dell’America con i talebani sono di gran lunga anteriori all’accordo di Trump del 2020. Nel 1997, appena un anno dopo che i talebani presero il controllo dell’Afghanistan, il gigante petrolifero statunitense Unocal ospitò una delegazione di capi talebani, tra cui l’ex ministro degli esteri Mullah Mohammad Gaus, presso gli uffici della compagnia a Houston, in Texas. Lo scopo della visita della delegazione era quello di firmare un accordo per costruire un gasdotto che sarebbe andato dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan fino al Pakistan e all’India. Secondo i rapporti dell’epoca, Unocal aveva promesso ai talebani 100 milioni di dollari l’anno per l’uso del suo territorio e la sicurezza dell’oleodotto. L’accordo sull’oleodotto fallì in parte a causa della guerra civile afgana e degli attacchi di al-Qaeda alle ambasciate Usa a Nairobi e Dar Es-Salaam.
Dopo l’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001, le autorità d’occupazione Usa nominarono presidente Hamid Karzai, carica che ha ricoperto fino al 2014. Furono smentiti i rapporti che definivano Karzai un “consultant” di Unocal ma quello che non si poteva smentire era il suo stretto rapporto con i talebani e il suo sostegno per loro. Karzai è un membro della tribù Popalzai, la stessa tribù di Abdul Ghani Baradar, un tempo vice del mullah Omar e ora leader dei nuovi talebani. Baradar era ricercato dagli Stati Uniti, venne catturato nel 2010 e liberato nel 2018 per ordine di Donald Trump per portarlo al tavolo dei negoziati a Doha che gli americani hanno tenuto con la leadership talebana. È quasi impossibile tracciare le linee che separano il governo corrotto di Karzai (che per la presidenza rinunciò alla cittadinanza Usa) dai talebani, ma allo stesso tempo quei legami potrebbero continuare ad aiutare oggi gli Stati Uniti a trovare canali per arrivare ai nuovi signori di Kabul. Perché ci sono in gioco grandi interessi economici. Gli Stati Uniti non solo hanno continuato a portare avanti l’idea di un gasdotto dal Turkmenistan, ma l’hanno trasformata in un progetto di punta nel 2014 che potrebbe generare enormi profitti per l’Afghanistan, il Turkmenistan e le società americane che avrebbero dovuto costruirlo. Ancora più importante, il progetto è un modo per aggirare il gasdotto degli ayatollah iraniani. I Paesi attraverso i quali dovrebbe passare il gasdotto – Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India – hanno firmato un accordo per costruire il gasdotto ad un costo stimato di 7,5 miliardi di dollari. La costruzione è iniziata nel 2015 e, sebbene gli Stati Uniti non siano partner nel finanziamento o nella costruzione, vedono il suo completamento come una mossa che potrebbe aiutare a riabilitare l’Afghanistan.
In settimana, dopo che i talebani hanno preso il controllo della capitale Kabul, le valutazioni si sono affrettate a seppellire il progetto. Ma i talebani hanno interesse a costruirlo così come i partner che possono lavorarci. India, Russia e Turkmenistan sono gli stakeholder immediati che hanno già investito parecchi soldi nel progetto, e i talebani hanno annunciato che attribuiscono grande importanza all’oleodotto e intendono continuare a costruirlo; tra l’altro non hanno escluso il possibile coinvolgimento di aziende americane nel progetto. La domanda è se Biden consentirà alle compagnie americane di partecipare o se imporrà sanzioni al nuovo regime per come ha preso il controllo del Paese e per le sue prevedibili violazioni dei diritti umani.
Al di là dell’interesse economico, Washington dovrà decidere come il regime talebano si concilia con la sua strategia regionale, soprattutto alla luce delle sue relazioni con l’Iran. I talebani hanno tradizionalmente visto l’Iran come un nemico religioso e ideologico, ma non si sono trattenuti dal ricevere aiuti finanziari e armi da Teheran in cambio della difesa del suo confine (450 km) dalle infiltrazioni dello Stato islamico e della salvaguardia della minoranza sciita afghana (gli hazara). Il Pakistan e il suo potente Isi – lo spionaggio estero – sono stati il crogiolo dei talebani negli anni Novanta e poi hanno dato asilo, protetto e riorganizzato i talebani, nonostante la “presunta” alleanza con gli Usa. L’Arabia Saudita – senza i suoi petrodollari il Pakistan non avrebbe le bombe nucleari – è in ottima posizione, per non sbagliare ha sostenuto sia il legittimo governo afghano che i talebani.
È difficile immaginare che un presidente degli Stati Uniti che ha fatto della tutela dei diritti umani una delle sue massime priorità abbracci improvvisamente la leadership dei talebani, specie dopo l’umiliante abbandono di Kabul. Ma se è pronto a parlare con gli Houthi in Yemen, sta cercando di negoziare con l’Iran sul nucleare e non ha ancora imposto sanzioni all’Arabia Saudita, non si può escludere del tutto la possibilità che prenda in seria considerazione la possibilità di “collaborare” – attraverso Paesi amici – con i talebani, anche solo nel tentativo di ridurre il danno terribile per la popolazione afghana. Per quel che pesa l’Unione Europea – per voce del suo responsabile della politica estera Josep Borrell – ha già aperto uno spiraglio: “Dobbiamo parlare con loro perché hanno vinto la guerra”.
Fabio Scuto sul Fatto Quotidiano