Nelle ultime elezioni regionali in Veneto il centrodestra di Luca Zaia ha vinto con il 76,79%, mentre il centrosinistra è piombato al suo minimo storico con il 15,75%. Questo risultato non è un caso sporadico, ma l’esito di un lento declino, che porta il centrosinistra all’irrilevanza: nel 2005 Massimo Carraro aveva preso il 42,45%, nel 2005 il Papa straniero Bortolussi il 29,08%, poi Lady Moretti, fuggita alla prima occasione in Europa, nel 2015 sembrava aver toccato il fondo con il 22,74%. Nel 2020 si è scesi sotto il fondo, per dirla con Dostoevskij, “nel sottosuolo”. Questo significa che l’egemonia leghista in Veneto è radicatissima, profondissima, abissale.
Ma che cos’è l’egemonia? Gramsci è stato molto chiaro: l’egemonia si realizza quando una classe dirigente diventa dominante, ovvero quando riesce a far diventare i suoi valori dei valori diffusi.
Anche di fronte a questa ennesima débâcle, l’analisi della sinistra residuale sembra assolutamente inadeguata. Sebbene non sempre palese, l’idea che serpeggia, a volte addirittura manifesta altre volte strisciante, è chiara: «le persone non ci votano perché non capiscono! È colpa dell’analfabetismo funzionale! Il popolo ignorante, il demos incolto, cade platonicamente preda del demagogo padano. È la scissione dalla realtà che impedisce al popolo di votarci: se solo si informassero, ci voterebbero».
La sociologia è una scienza sostanzialmente relativistica. Le opinioni e i sistemi di valori sono relativi al contesto storico, geografico, politico, pedagogico. Non esistono verità assolute. Eppure esiste il Teorema di Thomas, per definizione indubitabile: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». I gruppi sociali rendono reale le realtà sociali che reputano tali. La percezione della realtà crea la realtà. In politica questo vale all’ennesima potenza. In democrazia vince chi convince. Affermare che si perde perché le persone sono sceme è un ottimo modo per autoassolversi, ma un pessimo modo per interpretare il mondo. Come se le persone oggi fossero tutte incolte ed egoiste e un tempo fossero state tutte colte e solidali. Sicuramente le persone votano chi ritengono capaci di difendere i loro interessi. Insomma, se l’operaio votava il PCI era perché il Partito Comunista lottava per aumentare i salari e i diritti, per diminuire l’orario di lavoro. C’è oggi da capire, ed è uno sforzo culturale necessario, perché le persone si sentano più protetti dalla Lega.
È paradossale, ma si è ribaltato il rapporto tra la sinistra e il popolo. Celebri furono i dibatti, da questo punto di vista, tra Antonio Gramsci e Benedetto Croce e, nello scenario americano, tra Walter Lippmann e John Dewey[1].
Il grande intellettuale sardo riteneva che la filosofia della prassi non fosse un sistema di pensiero rivolto agli addetti ai lavori, un giochetto per pochi intellettuali che si ritirano in una torre d’avorio, ma un movimento culturale di massa che intendeva educare “i semplici”. Gramsci sosteneva che il computo dei voti non è l’espressione del dominio della mediocrità, ma la manifestazione terminale di un lungo percorso di formazione delle opinioni collettive[2]. Il bersaglio polemico era Croce, ogni atteggiamento elitista ed elitario. Se per Croce, come per un filone della sinistra contemporanea, il popolo è gretto e volgare, per Gramsci la costruzione di una visione del mondo collettiva e diffusa dipende dall’abilità di chi fa politica. Per chi è progressista, o semplicemente un democratico autentico, la scommessa e il sogno stanno nella capacità di coinvolgere il popolo nella costruzione delle scelte collettive. Al pastore sardo analfabeta, il progressista non dà dell’ignorante, ci parla, si confronta, lo coinvolge.
Sembra riportarci ad una questione simile la disputa tra il giornalista Lippmann e il filosofo Dewey. Lippmann riprende la dicotomia platonica che distingue l’opinione dalla scienza. Nell’età dell’informazione il popolo americano sembra essere profondamente disinformato. Per questo motivo bisogna lasciare il governo agli specialisti. Per Dewey, al contrario, la democrazia deve fondarsi sull’assunzione di responsabilità di tutte le persone normali e uno sviluppo culturale ed etico non di pochi, ma dei più.
Questa era l’utopia progressista. Quando la sinistra era di popolo, non contra populum. Negli anni Settanta sembrava quasi di esserci riusciti. Il 15% della popolazione italiana era iscritta ai partiti, operai e lavoratori leggevano il giornale e discutevano di politica. Forse una democrazia non solo formale, ma sostanziale, si stava realizzando.
L’economista francese Thomas Piketty ha definito la sinistra contemporanea il «partito dei Bramini»[3], capace di rivolgersi solo al ceto medio riflessivo ed intellettuale, dopo aver abbandonato il paradigma redistributivo e keynesiano. Evidentemente una minoranza. Forse per costruire il futuro bisogna ripartire dal passato. Quando si perde non è il popolo che è stupido, ma tu, politico, che non sei stato in grado di convincerlo della bontà della tua visione del mondo… anche questa, tra l’altro, tutta da costruire.
[1] Cfr. C. Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Neri Pozza, Vicenza 2017.
[2] Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1977.
[3] Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality and the Changing Structure of Political Conflict, WID.world WORKING PAPER SERIES N° 2018/7.
di Carlo Cunegato
Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza
a cura di Michele Lucivero
Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza e Oikonomia. Dall’etica alla città