Così come l’infanzia è stata costruita dalla borghesia in ascesa nel Settecento[1] e l’adolescenza in pieno Ottocento tra industrializzazione e eroizzazione romantica[2], la nostra tesi è che la gioventù sia un’invenzione peculiare del Novecento, dell’epoca postindustriale e della diffusione dei sistemi di formazione universitaria, tappa più o meno obbligata da intraprendere per alcune classi sociali per essere introdotti nel mondo del lavoro. Dopo l’adolescenza, durante la quale i ragazzi sono impegnati nella scuola dell’obbligo, comincia un periodo non ben definito, nel senso che si sa con certezza l’inizio, ma non la fine, giacché l’età adulta coincide in maniera molto labile con uno stile di vita, ma soprattutto con l’autonomia economica, con la costituzione di un nucleo familiare indipendente.
E, nel momento stesso in cui nasce, l’atto stesso della sua nascita coincide con la sua problematicità: è così che lo colgono Miguel Benasayag e Gérard Schmit[3], L’epoca delle passioni tristi, ma anche Galimberti[4], L’ospite inquietante. Ad un certo punto si staglia dallo sfondo un momento particolare della vita: dopo la scuola superiore i giovani, liberati dall’obbligatorietà di seguire le orme dei genitori, sono liberi di scegliere i loro percorsi, di andare incontro ad un destino incerto che li vedrà, nella migliore delle ipotesi, per i successivi dieci anni impegnati in un limbo costituito da un percorso formativo che si snoda tra laurea triennale, laurea magistrale, specializzazione, master di I livello, di II livello, e poi, come se non bastasse, una caterva di concorsi e colloqui, davanti ai quali ci si accorge che, forse, occorre anche prendere qualche altra laurea.
Non tutti riescono, ovviamente, a reggere la pressione di tale percorso di studi all’insegna della totale incertezza, fatto perlopiù di insoddisfazioni e situazioni incresciose, soprattutto nelle Università pubbliche, che spesso vengono percepite come ingiustizie, per cui la giovinezza diventa un incubatore di ansie, di angosce, di crisi di panico, di perdizione, di smarrimento. Ma, attenzione, di quali giovani stiamo parlando? Quali giovani ricadono sotto la lente di ingrandimento di questi analisti, esperti psicologi, sociologi e filosofi? Ebbene, non di tutti i giovani, evidentemente, ma solo di una fetta consistente della popolazione che riproduce il modello sociale, economico e valoriale della classe media, quella più rappresentata in Europa e in Occidente, costituita dalle famiglie con entrambi i genitori lavoratori (uno dei quali anche a nero, magari), con un reddito medio che, in Italia in particolare, si aggira intorno ai 30.000/35.000 euro annuali.
Tuttavia, ciò che vogliamo affermare è che la gioventù, quella che viene percepita come un problema da esperti e specialisti come Benasayag e Galimberti, è la gioventù che appartiene alla classe media, una costruzione della società postindustriale, costretta a ricercare nello studio e nel parcheggio universitario la promessa di un futuro che non si intravede, giacché la maggior parte dei loro amici più grandi, nonostante la laurea, hanno dovuto accettare le offerte del mercato e accrescere le file dei sottoccupati e sottopagati. Come non provare angoscia, ansia, sfiducia nel futuro davanti a questo scenario?
La gioventù, allora, nasce come “problema” di una classe media in profonda crisi occupazionale; la gioventù è la costruzione di un “problema” inerente alla dilatazione a dismisura dei tempi tra adolescenza ed età adulta, ma solo per chi non è in grado di garantire un futuro ai propri figli. Restano fuori, dunque, dalla gioventù come problema tutti coloro i quali riescono a inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro dopo la scuola, passando immediatamente dall’adolescenza all’età adulta. Ai due estremi della scala sociale occidentale vi sono, infatti, coloro i quali riescono a passare la bottega di padre in figlio e coloro i quali, analogamente, riescono a passare ai figli il testimone di grandi colossi industriali: per questi ragazzi non esiste un “problema” esistenziale, non c’è nichilismo, non c’è vuoto, ma un trapasso dolce, per alcuni estremamente morbido e ovattato, dalla scuola al lavoro e poi, eventualmente, alla famiglia, come coronamento dell’età adulta, non foss’altro che per tramandare lo schema che impone la prosecuzione dell’attività.
Con ciò non vogliamo affermare, ovviamente, che questi ragazzi, questi uomini e queste donne non abbiano problemi (e chi non ne ha?), ma sono di tutt’altro genere, maturati nelle loro specifiche circostanze sociali, magari di disagio culturale, di ordine prettamente economico oppure, dall’altro versante, legati alla noia dell’aver tutto, che spinge verso emozioni sempre più forti e devastanti, come capita ai rampolli delle famiglie del nostro Paese, che occupano spesso le nostre cronache e che, tuttavia, come i gatti cadono sempre in piedi.
Ma, allora, chi beneficia della costruzione di un problema generazionale come quello inerente alla crisi della gioventù? Ma loro, ovviamente, gli specialisti: psicologi, sociologi, esperti, vale a dire coloro i quali, avendo individuato e costruito il problema, hanno anche senz’altro una soluzione, giacché i matematici sanno bene che non esiste un problema senza soluzione. Ebbene, al di là dell’eventuale e brutale speculazione in questi ambiti, un dato di fatto, ma riconducibile ai farabutti che si insinuano tra i professionisti, la cosa più preoccupante è che la soluzione al problema della gioventù, che pare essere un problema di valori, di disimpegno, di abisso culturale, viene colmato e corretto con il ricorso a specifici valori, a determinati modelli e stili di vita, lasciando emergere in filigrana una sottile ma costante confusione tra il linguaggio specialistico, scientifico e quello politico, etico, talvolta anche religioso, nel tentativo di imprimere alla realtà sociale una determinata costruzione politica, spacciata come soluzione ad un problema che, in verità, vedono solo loro.
È in atto, dunque, oggi come ieri, ma sempre sotto rinnovate spoglie, una battaglia culturale in cui soggetti esperti intervengono come specialisti nel correggere comportamenti ritenuti “devianti” nei giovani, ma con un personale modello di correzione da proporre, che è il risultato di una scelta etica, valoriale, legata ad una visione della realtà che è profondamente politica non propriamente scientifica. Siamo convinti che dare un senso alla propria esistenza, così come al mistero della nascita e della morte, sia un’operazione prettamente filosofica, religiosa, che ciascun soggetto, con un adeguato accompagnamento di consapevolezza filosofica, dovrebbe scoprire nella propria coscienza, senza ricorrere a specialisti, a pagamento…la filosofia è gratis ed è per tutti!
[1] Cfr. P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari 1968.
[2] Cfr. F. Musgrove, Youth and the Social Order, Indiana University Press, Bloomington 1964.
[3] M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2013.
[4] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.
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a cura di Michele Lucivero
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