Agorà, la filosofia in piazza. Teodoro Custodero: Eddie Van Halen, uomo rinascimentale l’ultimo rivoluzionario della chitarra elettrica esistito

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Martedì scorso, 6 ottobre, verso le 22:00 inizio a ricevere via WhatsApp messaggi di amici chitarristi che mi comunicano la morte di Eddie Van Halen, l’ultimo rivoluzionario della chitarra elettrica esistito. «Che anno di merda» ho pensato immediatamente. «Questo 2020 tra Covid-19, crisi economiche ed esistenze precarizzate pure Eddie si doveva prendere?» mi ripetevo ore dopo andando a letto. A mente lucida il giorno dopo ho realizzato che due olandesi sono stati fondamentali nella formazione di quello che sono: Baruch Spinoza e Eddie Van Halen. Del primo ho parlato in articoli e libri e ne parlo ancora ai miei alunni a lezione per motivi curriculari; del secondo voglio provare a farlo qui brevemente.

Van Halen non è stato un filosofo, ma in comune con Spinoza – a parte la nazionalità – ha avuto il sorriso: come di Spinoza conserviamo solo dipinti in cui accenna un sorriso, così di Van Halen è possibile trovare in rete tantissime foto e video in cui lo si vede con un volto raggiante, felice, con uno sguardo che sembra dirci di essere in possesso di qualcosa di meraviglioso, una “gaya scienza”. In effetti Van Halen ha assemblato da solo la chitarra con cui suonava, decorandola con strisce di nastro adesivo, che sarebbero diventate il suo simbolo, e, inoltre, ha (re)inventato un modo di suonare la chitarra unico, che prevede l’uso di ambedue le mani sulla tastiera, il tapping. In questo modo le note vengono martellate con le dita e si ha quasi l’effetto di una cascata di note che vanno addosso all’ascoltatore in un flusso ininterrotto. La sua abilità è stata quella di rendere una tecnica meccanica qualcosa di musicale e integrato con la musica: non un virtuosismo fine a stesso, ma un modo espressivo che porta alla luce il modo personalissimo ed irripetibile di intendere quello che si suona.

Van Halen, quindi, è stato come quegli uomini del Rinascimento che hanno avuto il coraggio di esprimere la propria individualità con la creazione di paradigmi nuovi in cui al centro non si poneva più ciò che era stato fatto o pensato da altri, ma ciò che ognuno produceva. L’immagine dell’homo faber quindi con Van Halen trova una personificazione immediata. L’immaginazione con lui è veramente produttiva e sempre accompagnata da una gioia che riflette l’accrescersi delle potenzialità individuali. Il tutto in una persona che – come Spinoza – ha vissuto il rifiuto e la segregazione: il primo per le sue idee, il secondo per le sue origini meticce. Figlio di padre olandese e madre indonesiana, il giovane Eddie (così come la madre) veniva picchiato in Olanda perché mezzo sangue e con la famiglia fu costretto ad emigrare in California dove i Van Halen venivano equiparati ai neri. La musica e il successo internazionale avrebbero poi eclissato questa vicenda, ma non ha mai cancellato il bisogno di esprimere la sua individualità e la sua gioia. I videoclip che negli anni ‘80 iniziavano ad essere trasmessi su MTV ci mostrano l’apoteosi di questa gioia plasticamente espressa nei salti di Jump o nelle corse fatte nei loro palchi kilometrici: video che esprimono anche lo spirito di un tempo euforico e ricco di sperimentazione, fondato sull’illusione di un progresso tecnologico ed economico senza fine.

Ma torniamo al 6 ottobre 2020. È difficile spiegarlo a parole, ma la sensazione che ho provato quella sera è stata quella di una grande perdita, un lutto, che al tempo stesso non era solo mio, ma di tutto il mondo, musicale e no. In quel momento ho sentito che operava un dolore condiviso, quasi cosmopolita. Perché? Forse perché con la morte di Van Halen è andata via una dimensione creativa/immaginativa dalla scena di questo mondo sempre più standardizzato e stanco che con fatica riuscirà a fare nuovamente capolino.


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a cura di Michele Lucivero

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