Luciano di Samosata, il più arguto e celebrato satirico dell’antichità, in uno dei suoi dialoghi filosofici intitolato Vendite delle vite all’asta (???? ?????? o Vitarum auctio) mette in bocca ad Eraclito, interrogato da un possibile compratore, queste parole:
«Compratore - Ma tu, brav’uomo, perché piangi? Penso, infatti, che per te sarebbe meglio parlare.
Eraclito - Penso, straniero, che le cose umane siano lamentevoli e lacrimevoli, e che nessuna di esse non abbia il destino di morire; per questo ho compassione degli uomini e mi addoloro; le cose presenti non ritengo che siano grandi, mentre le cose che succederanno in futuro sono del tutto funeste, come le conflagrazioni e la distruzione dell’universo. Queste sono le cose che mi affliggono, e che nulla sia stabile, ma che tutte le cose come nella pozione del ciceone siano mescolate insieme».[1]
Questi cupi pensieri ed altri che scaturiranno dal dialogo tra i due porteranno il povero Eraclito a restare invenduto e il compratore ad allontanarsi, infastidito dall’esortazione macabra di Eraclito a piangere e dai suoi discorsi oscuri, e ad acquistare Socrate.
Eraclito, dunque, piange e invita al pianto perché ritiene che nulla nella vita sia stabile o - per dirlo in forma positiva - che tutto sia precario. Luciano scrive questo dialogo nel II sec d. C. e Eraclito - padre di questa posizione filosofica - era vissuto ben ottocento anni prima di lui, eppure l’attualità di questa constatazione esistenziale ci spiazza.
Cosa differenzia la precarietà del tempo di Eraclito e Luciano da quella che viviamo noi ai tempi di Facebook? Non sentiamo forse tutti i giorni al telegiornale parlare di precarietà anche per quanto riguarda l’inizio dell’anno scolastico, uno degli eventi più granitici dall’Unità d’Italia?
Il sociologo Luciano Gallino lega la contemporanea precarietà al lavoro ed in particolare a quello flessibile e a tempo determinato che negli ultimi anni ha progressivamente sostituito quello a tempo indeterminato. Scrive in Vite rinviate che «Il termine “precarietà”, dunque, non connota semplicemente la natura del singolo contratto atipico, bensì la condizione sociale e umana che deriva dalla sequenza di questo tipo di contratti, nonché la probabilità – progressivamente più elevata a mano a mano che la sequenza si allunga – di non arrivare mai a uscirne. Nessun settore dell’economia e del mercato del lavoro sfugge a questa regola».[2]
Ma possiamo aldilà dell’economia sviscerare questo concetto? Forse sì, se consideriamo che il termine precarietà deriva dal latino precarius, che significa ottenuto con preghiere, e che prex, preghiera, quindi ha in sé un richiamo forte al domandare e al chiedere. Ma chi è che chiede se non l’uomo?
L’uomo è l’essere che domanda, che chiede: l’uomo, quindi, non può che essere precario. Ma la precarietà, per quanto affascinante come concetto, è una piaga per chi la vive e parlarne così potrebbe sembrare quasi un’offesa verso chi la sperimenta ogni giorno nel proprio corpo: migranti, lavoratori stagionali, imprenditori che perdono tutto a causa dei cambiamenti climatici, Stati che rischiano il default perché pagano interessi più alti del debito che hanno contratto verso detentori privati di obbligazioni.
Forse è necessario accogliere la precarietà come un fattore ineludibile dell’umano, ma al tempo stesso è giunto il momento di riattivare forme di sostegno e solidarietà più incisive e più decisive; è il momento di “lavorare per l’incerto” ma insieme.
[1] I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 391.
[2] L. Gallino, Vite rinviate, Laterza, Roma-Bari 2014, p.
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