Nell’Alto Medioevo, la vita contemplativa di eredità giudaico –cristiana, forgia il modello sociale dei monasteri. Un sistema coeso in un periodo storico gerarchicamente triangolare composto da oratores (chierici), bellatores (guerrieri e signori) e laboratores (lavoratori), dove quest’ultimi sono a servizio dei primi due. In questo contesto, l’otium , di retaggio greco-romano, è fra i valori esistenziali piu’ temuti.
Eppure la dieta alimentare introdotta da San Benedetto da Norcia è meno gravosa sul fisico e sulla psiche. Nelle città dei cenobiti, l’abate pater famiglia, governa i monaci impegnati nel lavoro e nella preghiera. Da una parte i coristi, monaci dediti alle interminabili liturgie; dall’altra i conversi, laici illetterati che svolgevano il resto dei lavori. La quotidianità è disciplinata da una Regola, gia’ dal IV secolo e uniformata nel IX secolo, dalla Regola di Benedetto. Sono fissati i comportamenti, gli usi e i costumi nell’ottica della tradizione spirituale. Il lavoro ha un carattere soprattutto penitenziale. Alcune norme hanno caratteristiche quasi unanimi, come nel caso della divisione del lavoro manuale del regime alimentare, della cucina e del modo di consumare i pasti.
La cucina del monastero
Il monasterium ha una propria autonomia dell’approvvigionamento:da quello idrico,alla cucina; dal panificio al mulino, oltre agli orti e gli ambienti per conservare le derrate alimentari. Preminente la figura dell’ortolano e il cellario. Quest’ultimo provvede soprattutto al victus, i viveri dei fratelli che consegna settimanalmente agli incaricati del servizio (settimanari) e da’ il necessario, per il condimento dei cibi. Secondo San Benedetto il cellario deve essere “sapiente,maturo di carattere,sobrio,non mangione, né orgoglioso,ne turbolento,ne ingiurioso, ne indolente, ne prodigo”. Il lavoro del cuoco è esemplare per la sperimentazione dei valori della vita monastica in cui si contraddistinguono : disciplina, ordine e umiltà. La funzione ha un carattere penitenziale e ”colui che cucina non assaggerà niente prima che i fratelli abbiano mangiato”.
La dieta conventuale
Il regime alimentare dei conventi consiste nel sine proprio, nel non avere nulla per sé, ma nel mettere e nel conservare tutto in comune. Le derrate ridotte in quantità prestabilita, sono sottoposte a una rigida selezione: è esclusa la carne di ogni tipo a meno di rari volatili, e il pesce concesso di rado. La dieta si basa quasi esclusivamente su farina mescolata con acqua e verdure condite con formaggio e olio. Ai due cibi cotti prescritti (cocta parlamentaria), che insieme al pane costituiscono la refezione quotidiana, se ne puo’ aggiungere un terzo, se si tratta di frutta o legumi freschi .
Sono in particolare preferite le fave, mentre il pane “deve bastare una libbra abbondante al giorno”. E’ accordato poco piu’ di mezzo litro di vino da dividere fra quattro fratelli e da diluire con acqua; una razione in piu’ è consentita il sabato e la domenica. I condimenti infine sono sconsigliati, per non rendere troppo gustosi i cibi, ne appesantire la loro assimilazione. E’ infine escluso poter assaggiare alcunché, persino un frutto caduto dall’albero, al di fuori degli orari prescritti. Prima della terza ora nessuno puo’ bere o mangiare, la sesta e la nona sono dedicate ai cibi cotti,cioè rispettivamente pranzo e cena.
Liturgia del cibo e dello spirito
L’esistenza del monastero è peraltro regolata dalla prescrizione di una dieta alimentare piu’ strettamente ascetica in alcuni periodi. Le due settimane antecedenti alla ricorrenza della nascita del Signore o le prime due settimane di Quaresima, mentre di domenica il digiuno è espressamente vietato. Durante questo regime, possono essere servite tre portate e tre bevande nella giornata (vino puro in estate, bevande calde d’inverno), ma solo due di entrambe, se sono previsti il pranzo e la cena.
Una routine alimentare senza sorprese, ripetitiva e monotona, accompagna la vita monastica. Il modello culinario è condizionato potentemente dal rapporto col sacro attraverso la mediazione dei tempi ecclesiastici e del cerimoniale liturgico.
Insomma la salus (la salvezza dell’anima) passa attraverso la sanitas (del corpo) e come scrisse con maliziosa sagacia, l’accademico e gastronomo Piero Camporesi: “l’onesta è legata alla digestione”.