Se qualcuno nell’ultimo ventennio si fosse chiesto dov’era finita la conflittualità operaia, la risposta sarebbe stata una sola: tra i facchini. È nella logistica che a partire dalla grande crisi finanziaria (2008) si forma, ignorato per lo più da media e partiti, un movimento di lotta che ha trasformato un settore che all’ultima stima disponibile valeva nel suo complesso oltre il 7% del Pil, 116 miliardi e mezzo. Nel 2020 però i ricavi del mercato della contract logistics – cioè all’ingrosso quello dei corrieri specializzati – erano previsti fermarsi a quasi 78 miliardi, in calo del 9,3% rispetto agli 86 dell’anno precedente (stima dell’Osservatorio Gino Marchet del Politecnico di Milano).
Colpa soprattutto del blocco del commercio internazionale: la maggior parte del fatturato 2019 infatti, poco meno del 60%, dipendeva dal segmento B2B (business to business), quello dei trasporti tra imprese, ma in questi anni è esploso anche il B2C (business to consumer) – insomma i pacchi che vi arrivano a casa – cresciuto negli ultimi anni del 30% contro il 5% del B2B (dati dell’Autorità sulle comunicazioni). Nel 2019 la sola logistica terrestre contava poco meno di 100mila imprese, per lo più piccole o piccolissime, e quasi 900mila occupati: se parliamo delle sole consegne di pacchi in 5 anni si è passati dai 250 milioni movimentati nel 2014 ai circa 625 milioni del 2019 col boom dell’e-commerce.
12 anni di conflitto. Settore ricco, dunque, in cui quella che un tempo si chiamava lotta di classe vede ancora in campo entrambi gli attori e non solo “i padroni” come in gran parte dell’industria e dei servizi. La ragione è anche, per così dire, consustanziale alla logistica per due ordini di motivi: 1) non si può “delocalizzare” il traffico merci più di tanto; 2) il rispetto dei tempi è parte rilevante di questa industria: scioperare e bloccare i camion fa davvero sanguinare le imprese ogni ora che passa. E basta guardare le cronache locali per sapere che nella logistica si sciopera: un magazzino qui, uno lì; piccole vertenze o enormi come quella della Fedex-Tnt, che vuol licenziare 6.300 lavoratori in Europa; singoli magazzini o scioperi generali come quello indetto da SiCobas venerdì e che ha causato, tra le altre cose, il blocco al porto di Napoli. Sono “lavoratori essenziali” in tempi di Covid, eppure facchini e corrieri hanno avuto poco e nulla anche in termini di diritto alla sicurezza (ricordate il focolaio alla Brt?).
La sigla SiCobas, che magari confondete con altre del sindacalismo di base, è importante in questa storia. È intorno a SiCobas che si compatta oltre dieci anni fa il movimento dei facchini: parte dalla cintura di Milano e arriva nei magazzini di mezza Italia, portando nuova capacità di conflitto dove il sindacato tradizionale è spesso asfittico, sempre prudentissimo.
La reazione: i Dl Salvini. Il ciclo di lotte dei primi anni Dieci, animate in gran parte da lavoratori immigrati, ha cambiato la logistica. Tradizionalmente si puntava a spremere utili comprimendo i salari, specie attraverso il sistema dei subappalti affidati a cooperative che vanno e vengono, tenendo i “soci lavoratori” nella perenne paura del licenziamento e costringendoli a turni assurdi (da 12-14 ore) e ritmi infernali. “Su circa 42 mila nostri conteggi sulle buste-paga dei soci di cooperativa, in più del 90% dei casi emergevano differenze retributive superiori ai 1.000 euro per ogni anno lavorato, e nel 45% dei casi superiori ai 5.000 euro”, ha scritto Giuseppe D’Alesio dell’esecutivo nazionale di SiCobas.
Così si viveva – e a volte ancora si vive – nei magazzini della grande distribuzione o negli hub dei grandi corrieri, a non dire delle piccole aziende. Scioperi e picchetti, spesso repressi con durezza dalle forze dell’ordine, hanno portato qualche risultato: il più rilevante è che tra i corrieri diminuiscono le cooperative e aumentano Srl o assunzioni dirette. Il successo di quegli scioperi aveva contagiato altri settori, come la filiera dell’ agroalimentare, in particolare in Emilia Romagna: la reazione non si è fatta attendere e il pubblico la conosce come “decreti Salvini”. La reintroduzione del reato di blocco stradale anche su via ordinaria, ad esempio, è pensato esplicitamente per la logistica: gli aggravi di pena per reati o infrazioni commessi durante manifestazioni fanno il resto. Tra logistica e agroalimentare (vedi caso Italpizza) sono ormai centinaia i processi aperti contro sindacalisti e lavoratori nella sola “rossa” Emilia Romagna.
La nuova fase. Nel frattempo l’intero settore andava incontro – ai suoi vertici – a un processo di fusioni e acquisizioni massiccio, fermatosi (per ora) nel 2020: riporta l’Osservatorio del Politecnico che su 92 operazioni concluse dal 2015 che hanno coinvolto fornitori di logistica internazionale (nel 34% dei casi) e nazionale (66%), solo 9 hanno avuto luogo nel 2020. Un’analisi dell’Agcom sui servizi postali di ogni genere, iniziata nel 2018 e ancora in corso, ha individuato solo 17 operatori rilevanti: Amazon, Asendia, Brt, Citypost, Dhl, Elleci, FedEx, GLS, Hermes, Milkman, Nexive, Poste Italiane, Rpost, Schenker Italiana, Sda, Tnt, Ups. Quelli davvero grandi, comunque, si contano sulle dita di una mano.
Al processo di concentrazione s’è aggiunto l’avvento nel settore di Amazon. Non solo l’e-commerce è in enorme espansione (e la piattaforma di Jeff Bezos vi ricopre un ruolo dominante), ma Amazon è sbarcata anche nei trasporti rivoluzionando il settore: automazione e standardizzazione delle attività, niente subappalti, molto lavoro in somministrazione. Il rispetto formale dei contratti si declina, però in un’organizzazione che diremmo post-umana: riduzione al minimo delle pause, controllo di ogni attività da parte dei capisquadra, tempi di lavoro assoggettati a quelli di algoritmi e robot operativi, gamification (tipo le “medagliette” date a chi fa più consegne). Il massimo d’innovazione, paradossalmente, riporta il terreno di scontro in un luogo tradizionale per il sindacato: quello della resistenza operaia ai tempi della macchina. È puro Novecento: il Chaplin di Tempi moderni oggi vive in quei magazzini.
Nel frattempo, dicevamo, il braccio logistico con cui la società di Jeff Bezos ha integrato verticalmente la sua attività di vendita online s’è presa il mercato delle consegne B2C, quello in maggiore espansione: ha scritto Agcom che in soli 4 anni – tra il 2016 e il 2019 – la quota di mercato di Amazon nelle consegne deferred (3-5 giorni lavorativi) è passata dal 17 al 59% (Poste Italiane ha il 36% e gli altri non contano); nelle consegne “espresse”, che rappresentano oggi l’84% del mercato, l’attore dominante è ancora Gls con una quota del 40%, ma Amazon dal 2016 è passata dal 3 al 24% (seguono Brt col 17 e Poste col 10%). I numeri dell’azienda di Bezos, peraltro, sono sicuramente cresciuti nel 2020. Risultato: oggi si trova ad essere sia cliente che concorrente dei corrieri tradizionali e può decidere, dato il suo ruolo nel commercio su internet, come e quanto espandersi nel mercato B2C.
Avere a che fare con una grande azienda è certo più facile per un sindacato rispetto a un pulviscolo di cooperative e padroncini, ma Amazon non è certo un cliente facile, come non lo erano le mega-industrie del secolo scorso: nella sezione Motherboard di Vice qualche mese fa sono stati pubblicati una serie di documenti interni che dimostrano come il controllo di Bezos & C. sui loro impianti sia totale. Amazon dispone di quella che potremmo definire una rete di intelligence – organizzata da una sezione chiamata “Centro Operativo di Sicurezza Globale” – per sorvegliare la sua catena produttiva, gli umori dei lavoratori e le organizzazioni sindacali (quante riunioni, quanti partecipanti, argomenti trattati). Siccome la realtà ama i simbolismi, tra le aziende assunte da Amazon a questo fine c’è anche l’agenzia investigativa Pinkerton, che tra Otto e Novecento si distinse per certe spiacevoli praticacce anti-sindacali. Ieri era l’acciaio, oggi sono i pacchi (e quanto ad Amazon non dimentichiamo il cloud), ma il gioco è lo stesso.
di Marco Palombi sul Fatto Quotidiano