Persino nello studio della mia nutrizionista, la quale mi ricorda costantemente che per stare bene con la testa è importante curare il corpo, campeggia il motto del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach: «L’uomo è ciò che mangia»!
È un peccato che Feuerbach sia più apprezzato e utilizzato dai nutrizionisti e dagli esperti di questioni alimentari che dai filosofi, i quali, invece, indugiano sempre più in questioni spirituali e divagano alla ricerca di essenze e questioni ultime, se non proprio alla scoperta dei fondamenti ontologici, concetti ancori più oscuri per la maggior parte delle persone. In fondo, il messaggio che la mia nutrizionista vuole che io comprenda, che è di una banalità lapalissiana, prima di essere una verità feuerbachiana, è che se bevo tanto alcool e mangio cibi grassi, probabilmente passerò più tempo stordito a crogiolarmi sul divano, invece di studiare e scrivere, mentre, se mangio tanto pesce, gli omega tre e il fosforo ritorneranno utili sia al funzionamento del metabolismo sia allo sviluppo dell’intelligenza e della memoria.
Insomma, forse una buona dose di materialismo spicciolo, a partire dal cibo e da ciò che assumiamo quotidianamente, può tornare utile anche ai filosofi per piantare i piedi per terra e ricominciare a pensare all’essere umano, nelle varianti dell’uomo, della donna e di tutte le forme intersessuali che la Natura ci dona, anche nel rispetto di tutte le altre forme viventi.
Del resto, ciò che mangiamo viene profondamente influenzato da ciò che crediamo e viceversa: se un tempo mangiare era una necessità, per cui si mangiava tutto ciò che si poteva cacciare e raccogliere con l’esigenza di sfamarsi, oggi mangiare per molti è una scelta e davanti alla sovrabbondanza di cibo, ovviamente ciò vale solo per i paesi e le culture che navigano nell’opulenza (ecco che qui spunta il legame anche con l’economia, ndr), optano per una scelta etica, di rispetto per altri esseri viventi, una scelta nonviolenta che muove dal rifiuto di uccidere o sfruttare altri animali per sfamare gli uomini e le donne, in virtù di una presunta superiorità.
Da questo punto di vista, il motto di Feuerbach può essere considerato facilmente come la controparte di quello del gastronomo e politico francese Jean Anthelme Brillat-Savarin, il quale ammoniva: «Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei», introducendo così un fondamentale significato culturale e antropologico al cibo, vale a dire una sorta di determinismo tra l’assunzione di un certo cibo e il temperamento di una persona. Lo sapeva bene anche il filosofo Immanuel Kant, il quale, oltre alle opere più impegnative, scrisse anche un’Antropologia pragmatica[1], in cui distingueva l’ubriacatura da vino da quella da birra, da cui ricavava anche indicazioni sul temperamento dei popoli dediti all’uso di vino e quelli dediti all’uso di birra, ma vado a memoria perché – e qui approfitto chiaramente dell’uso pubblico del mezzo stampa – non ricordo più a chi ho prestato il libro, che è pregato di restituirmelo.
Mangiare e bere, insomma, non sono più questioni di poco conto per l’essere umano e dall’analisi dei due motti citati possiamo agevolmente comprendere che, così come gli uomini e le donne vengono trasformati e plasmati dal cibo che ingeriscono, al tempo stesso sulla varietà di cibo a disposizione gli esseri umani, a differenza degli animali, compiono una selezione, la quale è il risultato di una scelta deliberata, diremmo etica, in alcuni casi, ma in altri è l’esito di un condizionamento geografico, culturale, religioso, perlopiù obbligato.
Se per molto tempo la scienza della cucina e l’arte della gastronomia erano questioni di alto bordo, oggi forse per noia o per questioni di marketing, si tende a rivalutare la cucina popolare, quella povera, di sopravvivenza, frugale, fatta con molta fantasia con quel poco che si aveva a disposizione, ma non per questo meno gustosa e meno buona di quella nobiliare e raffinata. Il risultato di questo cambiamento è che si tende a riscoprire una cucina fortemente connotata a livello culturale e territoriale, oggi si direbbe a km 0, ma non per questo meno costosa e meno impegnativa. Si pensi solo al fatto che un tempo le nostre massaie passavano tutta la giornata a cucinare e i segreti delle cotture, delle tecniche e dei singoli alimenti erano tramandati con cura di madre in figlia, perché la cucina era una questione prettamente femminile.
Al tempo stesso, i trattati di cucina, quelli fatti bene, ci spiegano anche il nostro passato, le influenze straniere e gli scambi interculturali che hanno caratterizzato la nostra storia. Lo possono testimoniare i veneti, tra l’altro, che, a differenza degli altri italiani, sanno bene che la bevanda tipica e più popolare della loro regione, dal 2011 considerata come cocktail dall’International Bartender Association, cioè lo spritz, storicamente è nata perché durante la dominazione austriaca, i soldati di stanza nel Lombardo-Veneto, probabilmente abituati alla birra e non alla gradazione alcolica così alta dei nostri vini, cominciarono ad allungarli con acqua frizzante, spruzzandola (sprühen o spritzen) nei loro bicchieri. E i veneti dovrebbero sapere anche che l’uso massiccio dello scalogno nella loro cucina e non della cipolla (di Tropea, di Zapponeta o di Acquaviva delle Fonti, per citare solo le più comuni), era un cipollotto portato dai crociati nel XII secolo (da Ascalona, un paese mediorientale), a testimoniare la vocazione e la posizione interculturale di Venezia.
Oggigiorno, proprio in virtù del fatto che anche mangiare e cucinare sono diventati momenti su cui riflettere e su cui operare delle scelte etiche, molti chef sottolineano anche l’importanza di non buttare via nulla, di riutilizzare tutto in cucina, dagli scarti delle verdure mondate, che potrebbero essere bolliti per ricavarne un brodo utilissimo per la cucina, alle frattaglie degli animali, una rarità per stomaci forti, per farne un gustoso “quinto quarto” gourmet, ma che, al tempo spesso, farebbe rabbrividire la mia amica vegana e attivista animalista, per la quale, invece, si potrebbe anche fare a meno di indulgere in questa inutile aberrazione etica.
[1] I. Kant, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2009.
Di Michele Lucivero, da ViPiù.it