L’antidoto contro il male di vivere: riflessioni contro il primato dell’esistenza

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«Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

 

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato»

Eugenio Montale, Ossi di Seppia

 

Male di vivere” è un’espressione che molti poeti e scrittori hanno utilizzato per descrivere uno stato di depressione esistenziale in cui sembra che tutto ciò che è “vita” sia intrinsecamente caratterizzato da un qualcosa di negativo. Nella sua descrizione i poeti sono stati dei maestri, mostrandoci con la potenza della parola come si possono spiegare i sentimenti umani. Il male di vivere viene spesso curato con la speranza e in maniera speculare senza di lei, Meteora, sembra che la vita non abbia senso. Non è però la speranza in sé che vorrei qui contestare, ma la struttura di una particolare speranza come di una particolare disperazione: ovvero i sentimenti incentrati sul primato dell’esistenza e dell’individualità. Non è liberandosi dalle emozioni, come il nichilismo suggerisce, che ci si libera dalla disperazione. Per quanto il male di vivere esisterà sempre, può essere limitato grazie a un cambio di prospettiva unito a un cambio concreto delle condizioni materiali che provocano la sofferenza.

Se nella concezione pessimista tutto è intrinsecamente negativo, con la speranza si vuole cercare del positivo anche se nell’immediato non si riesce a farlo. Montale rappresenta questo antidoto alla disperazione con una serie di immagini: «divina Indifferenza», «statua nella sonnolenza», «meriggio», «nuvola» e «falco alto levato». Per Montale la speranza è quindi allontanamento: un volo via lontano dal contesto sociale ed economico che ha creato il male di vivere. Questa visione sottintende un pericoloso assunto, ovvero che la realtà sociale non è modificabile e l’unica soluzione è quella di alleviare momentaneamente il dolore. La speranza esistenziale ha quindi la stessa funzione della religione per Marx, sospiro della creatura oppressa.

Il poeta pensa che la sofferenza sia una condizione esistenziale, fissa, non migliorabile e intrinseca all’uomo. Il dolore però è in buona parte un prodotto sociale, soprattutto quello che genera il male di vivere. E anche il male non-sociale non ha nulla di spirituale, essendo parte della natura. La descrizione montaliana ha la stessa struttura della speranza che rivolgiamo alla stella cadente ogni volta che esprimiamo un desiderio, o dell’attesa sterile verso l’anno nuovo espressa anche da Leopardi nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere. Sembra che allora la speranza stessa sia sacrificabile, come una delle tante vecchie illusioni, figlie dell’oppressione, che vanno eliminate. Questo pericoloso passo in avanti ci sterilizzerebbe, ci renderebbe inutili pedine di un disegno meccanizzante della vita a cui noi stessi ci siamo autocondannati. Per evitare, o per provare a limitare, questa dicotomia tra rifugio nelle illusioni e fine della vita ritengo utile analizzare la speranza, le sue origini e la sua evoluzione sociale. Tutte cose che non farò qui, ma che proverò ad abbozzare, lasciando qualche idea.

Non è quindi un sentimento in particolare di cui dobbiamo liberarci, ma dell’atteggiamento con cui ci relazioniamo nei confronti del nostro proprio io. Speranza e delusione non devono essere contrapposte, ma anzi sono complementari. «La conoscenza, pertanto, ha inizio con la demolizione delle illusioni, con la de-lusione (Ent-täuschung in tedesco)»[1]. Così lo psicanalista tedesco Erich Fromm mette in relazione la liberazione dalle illusioni con la conoscenza. Quindi se siamo speranzosi senza essere anche delusi, allora la nostra speranza sarà non consapevole. Saremo alienati e estraniati nel mondo delle illusioni, adoranti nell’attesa della loro realizzazione. La speranza cosciente, al contrario, ci libera dalla schiavitù nei confronti delle illusioni, consentendoci di liberare i nostri bisogni e i nostri desideri più nascosti. Dobbiamo essere coscienti del fatto che «la struttura socioeconomica di una società plasma il carattere sociale dei suoi membri in modo tale che essi desiderano fare ciò che devono fare»[2].

La liberazione del desiderio quindi non può non andare di pari passo con la comprensione dei meccanismi sociali e psicologici che lo sottendono. Herbert Marcuse ha studiato a fondo la creazione di bisogni indotti da parte del sistema. La futura speranza non dovrà essere semplicemente accettazione dello stato di cose presente e quindi ridursi a mera consolazione. «Il bisogno fonda gli stati e il bisogno li distrugge. Di fronte al bisogno cede ogni potenza»[3], ed è per questa ragione che la soddisfazione dei bisogni è la premessa alle nostre speranze. D’altro canto stiamo parlando di desideri liberati dal condizionamento aggressivo del sistema e coscienti di essere umani e limitati alle strutture dell’uomo. Stiamo superando il male di vivere in favore della speranza che, cosciente di essere umana, non sarà mai totalmente libera da condizionamenti e limiti.

Quanto riusciremo a liberarla?

 [1] Erich Fromm, Avere o Essere? Mondadori 2022, pag. 54

[2] Ivi, pag. 150

[3] Ludwig Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi 1972, pag. 102


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a cura di Michele Lucivero

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