App e libertà di espressione e comunicazione, Aduc: consideriamo gli umani alla stregua di un elettrodomestico?

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App, una serie
App, una serie

Le app vengono usate nel mondo (dati 2021) per quasi cinque ore al giorno. Lo si fa essenzialmente per “andare” e “informarsi” sui social (42%). Il record è per TikTok (leggi qui). In Italia le più scaricate sono quelle legale alla pandemia (PosteID, IO, Verifcac19, Immuni), e tra le prime dieci ci sono WhatsApp, Facebook, Instagram, Messenger, Amazon, Spotify e Netflix – si legge nel comunicato sulle App che pubblichiamo dell’associazione Aduc (qui altre note Associazione per i diritti degli utenti e consumatori su ViPiu.it, ndr).

I social sono informazione, interazione tra singoli, non gratuite come qualcuno forse ancora crede, ma dove si paga consentendo l’uso dei dati di registrazione e navigazione. Un contratto dove ci viene offerto un servizio e lo accettiamo. Con una differenza, rispetto a quando acquistiamo un elettrodomestico: il suo funzionamento non è solo un aspetto tecnico ma anche contenutistico. Questo sembra che non l’abbiano capito i proprietari di questi social che, infatti, considerano gli aspetti contenutistici al pari di quelli tecnici. Per evitare che si sgarri a quella che loro chiamano policy, usano algoritmi che stabiliscono se i contenuti pubblicati rientrino in alcuni parametri.

Tipico esempio è la censura delle App che scatta verso chi pubblica foto di parti del corpo umano (quelle che secondo loro sono offensive della morale) o di parole che evocano persone o fatti che ritengono offensive del loro concetto di morale. Un appiattimento che non consente, per l’appunto, contesti in cui
magari certe immagini e parole sono utili e non necessariamente offensive di qualcuno o qualcosa.
A questo aggiungiamo che, per evitare le pubblicazioni automatiche di pubblicità o altro, vengono censurati anche gli iscritti che secondo loro pubblicano troppo (un troppo che non viene definito) e, ai quali si chiede di opporsi se non sono d’accordo… opposizione presentata ad un algoritmo che reagisce in automatico e, per nostra esperienza, dando sempre torto.
E’ evidente che su questi social non sono possibili discussioni e confronti ma solo accenni vaghi, sintetici e brevi su argomenti decisi e, nel caso, censurati ad inderogabile decisione dei proprietari. Eppure c’è un contratto, ma è tra un umano e una macchina, dove quest’ultima considera l’umano al pari di un elettrodomestico che, se non risponde a certe caratteristiche controllate dalle loro macchine, viene staccato e buttato in discarica.
In genere si dice che questo meccanismo è conosciuto dall’utente, che lo accetta, e non può fare altro. Con questo si dimentica, però, che i contratti (di qualunque tipo) non possono derogare i diritti stabiliti dalle leggi inderogabili. Tutto questo in un contesto in cui l’oligopolio che i social costituiscono è di difficile interlocuzione perché, con la loro transnazionalità, spesso sono al di fuori dell’applicazione delle leggi.
Ci poniamo una domanda: la libertà di espressione e di comunicazione dei singoli ha solo questi mezzi – coercitivi e massificati – per esprimersi?
Certo, le nostre leggi, per esempio, non aiutano quando stabiliscono che un reato commesso attraverso questi mezzi non è solo responsabilità di chi lo commette ma anche di chi ha offerto il mezzo e non ha vigilato perché non si verificasse. Leggi liberticide, a nostro giudizio, visto che la responsabilità penale è comunque individuale. Ma è questo sufficiente perché espressione e comunicazione siano possibili solo considerando gli umani alla stregua di un elettrodomestico?