“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 2 novembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.
Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva rileggi la Prefazione e il glossario di “arte culi ‘n aria“, una nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più.
“I ge ciamava el singano. ‘l conoseva l’arte de cusinar ‘l gato”.
Sul perché i vicentini siano chiamati “magnagati” si é sprecato inchiostro e si é molto parlato e, per fortuna, se ne parlerà molto. Sembrerebbe, tra varie versioni, la più attendibile, rifarsi a quel viaggio che alcuni vicentini, incaricati dal governo di questa città, hanno intrapreso presso la Serenissima Repubblica, sotto lo spettro di quel popolo di topi che prolificava nella berica città.
Notoriamente Venezia era ricca, e tutt’ora lo é, di quel felino che si definisce domestico. I veneziani, sempre ospitali, anche se a modo loro, imbandirono un banchetto serale a base di carni bianche, che, poi si rivelarono gatti. Grande sganasciata dei veneti lagunari, grande apprezzamento dei veneti berici che in quelle carni trovarono grande sapore. Ben si sa che il gatto é onnivoro, e da una simile nutrizione la carne non può che trarne grande vantaggio.
A buon esito dell’operazione grazie ai gatti ricevuti dai veneziani, Vicenza fu liberata, per quanto necessario, dai topi, non tutti, non si sa mai. Si diceva, che, ad operazione compiuta, di gatti ne rimasero assai, gatti che si sarebbero dovuti mantenere con relativo dispendio economico, ed, é notorio, che i vicentini in fatto di soldi non siano il massimo della munificenza. Memori di quella spedizione a Venezia e di quel famoso banchetto, pensarono che il gatto potesse essere una soluzione doppiamente vantaggiosa, tanto più che i veneziani, i gatti, non li avevano regalati.
Ben si sa che una vivanda trova nell’uso continuo una evoluzione nella preparazione, così successe anche per il gatto. Fu così che ricetta importante, quasi storica, divenne quella del “singano”. Non é fondamentale la ricetta per il sistema ed i tempi di cottura o gli ingredienti, ma la preparazione dell’animale per poter essere cotto. Il tempo, il momento migliore, anzi, necessario, per gustare il gatto, era quello delle nevicate. Sì perché il gatto, una volta privato dell’ultima delle sue sette vite, doveva essere, con pelliccia e tutto, posto a frollare sotto la neve per almeno una decina di giorni, “mejo se quindese”.
Una volta tolto dalla bianca coltre veniva privato della pelle, pulito e preparato per la cottura, preferibilmente, in umido con tanta cipolla e prezzemolo. Le interiora davano consistenza al “pocio” che innaffiava una crema di mais (polenta) di pregevole cottura, ed inequivocabilmente di farina “maranea”.
Diceva “’l singano”: il “gato xe magnar da re” perché il gatto é senza padroni, quindi é un re. Solo che il re, lui, estemporaneo giacobino, se lo mangiava. Forse proprio per questo regale legame, i vicentini mai si offendono se gli stranieri, i barbari, ” i foresti” li apostrofano “magnagati”.