Arte culi ‘n aria, la quattordicesima ricetta vicentina con spunti di storie di Umberto Riva: el minestron, l’importanza di rimanere in piedi

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Arte culi ‘n aria, el minestron de fasoi
Arte culi ‘n aria, el minestron de fasoi
Un lettore che si "gusta" Arte culi 'n aria
Un lettore che si “gusta” Arte culi ‘n aria

“Arte culi ‘n aria“ è il titolo di una serie di.. articuli così come li ha scritti (l’ultima pubblicazione di quello che ripubblichiamo oggi è del 31 dicembre 2019, ndr) Umberto Riva per te che nel piacere della tavola, vedi qualcosa di più: gli articoli sono raccolti insieme alla “biografia” tutta particolare del “maestro” vicentino Umberto Riva nel libro “Arte culi ‘n aria”, le cui ultime copie sono acquistabili anche comodamente nel nostro shop di e-commerce o su Amazon.

Prima di “gustarti” la nuova ricetta fuori dal normale di Umberto Riva (el minestron) rileggi la Prefazione e il glossario di arte culi ‘n ariauna nuova serie di.. articuli così come li ha scritti il “nostro” Umberto per te che nel piacere della tavola vedi qualcosa di più.


Vox populi, vox dei.

Tradizione popolare.

“Così disea me pare”.

Parlare dei veneti, parlare dei vicentini e non parlare “de minestron”, é eresia. “Pesto de lardo, un spigeto de ajo, un rameto de rosmarin, fasoi apena scaola, o mesi in moja co ‘na punta de bicarbonato la sera prima, poke patate, ‘n poca de seoa, e, voendo, anca ‘na gamba de sejno”.

“Beo, bon e fiso”. Che “’l cuciaro staga in pie da solo”.

Arte culi 'n aria
Arte culi ‘n aria

“El pesto de lardo”. La mamma era attrezzata e procedeva come segue. “Nel pignaton”, per i francesi era la “marmite”, andavano le verdure. Patate, fagioli, quel pò di sedano e cipolla. Mentre cominciavano a bollire, tra i coperchio e la pentola, si infilava la “cortea”. Un coltello grosso, alto, con la punta mezza tonda (quello che si usava per mettere sotto la tavola delle tagliatelle, che si usava per raschiare la tavola delle tagliatelle, quello che si usava moltissimo e, forse, mai per l’uso per cui era nato). “’l panaro”, un tagliere alto circa quattro centimetri. Il tagliere nel tempo s’era morfologicamente deformato. A furia di battere il lardo sempre nello stesso punto, s’era formato uno scavo talmente profondo che si poteva, guardando controluce, vedere il sole. La parte mancante faceva ormai parte di noi stessi. Mangiata e digerita! A fronte del vecchio adagio “queo ke no strangoa, ingrasa”.

Il pezzo di lardo trovava locazione sul “panaro”, ovvero nello scavo del tagliere. Poteva così essere battuto con la parte arrotondata della “cortea” , il lardo non si attaccava alla lama poiché il caldo dell’acqua ove bollivano le verdure, aveva riscaldato il coltellaccio. Nel buco del tagliere finivano, lo spicco d’aglio, ed il rosmarino “ben lavà che non se sa mai”. A pesto pronto, la “cortea” serviva per raschiare “’l panaro” ed anche “nel buso, no dovea restare gnente” e veniva riinfilata tra coperchio e pignatta. Tutto si scioglieva e condiva “el minestron” e niente rimaneva sulla lama. Prima di infilare il lardo nella pentola, si toglieva una certa quantità di fagioli, erano buoni usati come secondo, “co ‘na foieta de salvia, ‘n gioso de ojo e na sculierà de aseo”. Si provvedeva, altresì, a passare nello schiacciapate, le patate, la cipolla, il sedano e buona parte dei fagioli. Ricordarsi “la coesa”. La cotica del lardo, di quel pezzo di lardo che si utilizzava per il pesto, veniva raschiata con la solita “cortea”, e buttata nella “pignata”. Il fortunato era quello che se la trovava nel piatto. Il ritrovamento era l’unica gioia perché doveva essere divisa “dagene un toco anca a to sorea”. Non sempre la cotica era privata di tutte le setole. Pazienza! “El spunciava, ma el xera bon, e pò, come se dixe, magna ke xe tuto bon e te deventi grando.

Si cuoceva. Si cuoceva. Si cuoceva.

La consistenza indicava il giusto punto di cottura. “Quando ‘l xe fiso, ‘l xe coto”.

Se si attaccava, un pò, non molto però, andava bene. Così “’l sa da brusin”.

Si poteva arricchire con un pò di lasagne. Era allora “’na goduria”.

Con i fagioli tolti dal minestrone, si potevano preparare i “fasoi in salsa”. “’n paro de aciuge, ‘na sculiera de conserva, quatro cinque foiete de salvia e desfrito de zeoa, tanta zeoa”. Doveva cuocere fin che “i fasoi i scomisiava a dresfarse”.

“El minestron de fasoi” con soli fagioli di cui alcuni passati, era un altro piatto. Bisognava cuocerlo coi “garibaldini”.

Versato in scodelle veniva collocato sullo sporto della nappa del camino (“va ben anca su ‘l armaro in camara, ricordandose de meterge soto ‘na strasa se no se vede ‘l stampo de ‘l culo de ‘e scuee su ‘a vernisa”). Bisognava aspettare, meglio il giorno dopo. Doveva raffreddare, indurire, “fare ‘a grosta”. Servito con “‘na crose de ojo” era “da lecarse i mostaci e da ciuciare la scoea”.

“Minestron e minestron de fasoi”: minestre “da mastegare, se te voi ke ‘e sia bone”.

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