E’ bene premettere che la legge sul divorzio (art. 5 c. 10 legge 898/1970) prevede che l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze. La disposizione vale nel caso in cui l’ex coniuge contragga matrimonio e non menziona la convivenza di fatto; inoltre, neppure la disciplina sulle convivenze e unioni civili (legge 76/2016) si occupa della problematica. Occorre, quindi, valutare se tale norma possa applicarsi anche ai casi di convivenza more uxorio – afferma nel comunicato che pubblichiamo Smeralda Cappetti, legale, consulente dell’associazione l’Aduc (qui altre note Associazione per i diritti degli utenti e consumatori su ViPiu.it, ndr).
L’indirizzo giurisprudenziale prevalente e precedente alla sentenza di Cassazione Sezione Unite che qui analizziamo, faceva riferimento ad una cessazione automatica del diritto all’assegno nel caso di formazione di una nuova famiglia di fatto (in ultimo Cass. 2732/2018; Cass. 5974/2019; Cass. 29781/2020). Il fondamento era il principio di autoresponsabilità, in quanto il coniuge beneficiario dell’assegno, decidendo di iniziare la convivenza si assumeva il rischio della completa cessazione del rapporto precedente, con ciò che ne consegue in termini di assegno divorzile.
Rivoluzionando tale principio, le Sezioni Unite -con sentenza n. 32198 pubblicata il 5 novembre 2021- prendono invece le distanze dal precedente orientamento che sembrava consolidato, almeno in presenza di un convivenza more uxorio equiparabile al matrimonio nella quale fosse evidente un progetto di vita comune. La sentenza cancella qualunque automatismo tra nuova convivenza e perdita dell’assegno in favore del coniuge economicamente più debole e chiarisce che il nuovo percorso di vita intrapreso con una terza persona – accertato giudizialmente – incide sul diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, sulla sua revisione o sulla sua quantificazione, ma non ne determina necessariamente la perdita integrale. Il coniuge economicamente più debole può, infatti conservare il diritto esclusivamente in funzione compensativa e non assistenziale in presenza di talune circostanze.
Se infatti, l’ex coniuge non può più pretendere la componente assistenziale dell’assegno, può però avere diritto alla liquidazione della sua componente compensativa che verrà quantificata tenendo conto di diversi parametri. Fra questi, come spiega la Corte, vanno considerati: la durata del matrimonio, l’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare oppure del patrimonio personale dell’ex coniuge, nonché le eventuali rinunce concordate ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio.
Per conservare il diritto all’assegno divorzile il richiedente quindi deve, in assenza di mezzi economici adeguati, fornire una serie di prove, tra cui proprio quella relativa al contributo offerto alla comunione familiare, oppure eventuali rinunce concordate a occasioni lavorative e di crescita professionale durante il matrimonio nell’interesse della famiglia.
Se, infatti, da un lato si abbandona il riferimento alla componente assistenziale dell’assegno per evitare che l’ex coniuge sia obbligato a versare per sempre l’assegno a chi ha formato una nuova famiglia di fatto, dall’altro la sopravvivenza della parte compensativa dell’assegno consente di tenere conto – sempre in presenza del presupposto della inadeguatezza dei mezzi economici- del contributo economico fornito dal coniuge alla famiglia nel corso del matrimonio.