Associazioni, FQ: il grande affare della difesa dei consumatori

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Ogni mattina, come sorge il sole, un consumatore si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di un colosso telefonico, energetico, dei trasporti o verrà spennato. Ogni mattina, come sorge il sole, un’associazione dei consumatori si sveglia e sa che dovrà correre più veloce delle altre e fare un comunicato stampa per poi costituirsi parte civile nel maggior numero di processi e ottenere il risarcimento. Sono a decine, si moltiplicano come funghi e a livello locale se ne perdono addirittura le tracce.
 Per i consumatori è un labirinto addentrarsi nei loro siti che, se nella maggior parte dei casi non risultano aggiornati, hanno tutti un fattore comune: centinaia di dichiarazioni compulsive di presidenti o segretari su tutte le peripezie che subiscono i consumatori. Ma se qualcuno riuscisse a perdersi queste “cazziate” contro i poteri forti, basterà sintonizzarsi su un qualsiasi programma in tv e ascoltare dalla loro viva voce l’ennesimo commento al vetriolo sull’ennesima sciagura che si è abbattuta sugli italiani. Un po’ come prezzemolini, i responsabili delle associazioni presidiano i salotti del piccolo schermo per dimostrare che dalle assicurazioni all’ambiente, dall’alimentazione alle banche, dalla giustizia alla sanità non c’è settore che non sia presidiato e tutelato. Cani da guardia nel mercato dei beni e dei servizi, che non guardano in faccia a nessuno. Almeno su carta. I consumatori italiani restano, infatti, tra i più vessati a livello europeo anche perché non c’è un’accettabile cultura finanziaria ed economica che permetta loro di difendersi.

Sono venti le associazioni dei consumatori riconosciute dallo Stato (si caratterizzano per l’appartenenza politica o sindacale), secondo l’articolo 137 del Codice del consumo che nel 2005 le ha istituite, e sono iscritte all’albo nazionale tenuto dal Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (Cncu) che ha sede presso il ministero dello Sviluppo economico. Per “esistere” devono rispettare pochi requisiti, tutti autocertificati: tra le altre cose, essere attive da almeno tre anni, avere un numero minimo di iscritti, essere presenti in almeno cinque Regioni con i loro sportelli e avere uno statuto che preveda una certa democraticità interna. Il riconoscimento pubblico a livello nazionale dà alcuni vantaggi, come la possibilità di rappresentare gli iscritti nelle conciliazioni paritetiche, una procedura di risoluzione delle controversie, la possibilità di partecipare ai bandi per i progetti a favore dei consumatori finanziati dall’Unione europa. Un fiume di soldi elargito soprattutto per scrivere e diffondere depliant, vademecum e fascicoli informativi sulla tutela dei consumatori che, perlopiù, restano negli scatoloni nelle sedi delle associazioni dove di associati se ne vedono ben pochi (i maligni dicono che la maggior parte degli iscritti sono nomi falsi o che si ripetono nell’elenco di diverse associazioni), perché fino all’85% dei bilanci delle associazioni hanno un’unica voce in entrata: una parte dei fondi derivanti dalle sanzioni dell’Antitrust, mentre le quote d’iscrizione e il tesoretto raccolto dal 5 per mille sono poca cosa.

Tutto ruota attorno ai 10 milioni di euro annui che dal 2015 a oggi si stanno spartendo in 20 tra iniziative di controllo e vigilanza dei consumatori, conoscenze di tutela o iniziative di supporto. Ma c’è anche da dire che prima del 2010 i fondi erano molto più alti: dal 2003 al 2007, ad esempio, si sono spartiti 47,7 milioni. Poi, parte di questo tesoretto è andato ad altre iniziative decise dal ministero dello Sviluppo economico. Ad esempio, nel 2016 (l’ultimo anno contabilizzato) alle “iniziative per la restituzione parziale da favore dei beneficiari delle polizze dormienti (8.879.798, 74 euro nel 2016, ndr)”. In ogni caso, la maggior parte delle entrate delle multe (quasi 147 milioni di euro sempre nel 2016) è stato utilizzato per altro, come per gli interventi in favore delle popolazioni terremotate (80 milioni) o il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese (23 milioni).

Insomma, i soldi ci sono per insegnare ai consumatori come difendersi senza bisogno di subire lo strapotere delle aziende. Eppure qualcosa non funziona. Così anche se da anni le associazioni dei consumatori si confrontano con l’Associazione bancaria (Abi), questo non ha evitato che semplici clienti sottoscrivessero azioni subordinate di Banca Etruria, vedendo finire i propri risparmi in fumo, anche se nel 2014 le stesse associazioni hanno aderito alla Fondazione per l’Educazione Finanziaria e al Risparmio, l’organismo per diffondere l’educazione finanziaria nel Paese.

Desta qualche perplessità anche la Consulta per la sicurezza istituita da Autostrade per l’Italia in collaborazione con Codacons, Adusbef, Federconsumatori e Adoc nel 2005. Per l’anniversario dei primi 10 anni le associazioni hanno espresso un giudizio positivo per quella partnership che ha portato alla presenza in autostrada dei cartelli con l’indicazione dei prezzi della benzina, senza fare riferimento alla sicurezza di ponti e gallerie.

E sempre i maligni mettono sul piatto anche la partita della class action, il meccanismo che consente di aderire all’azione legale. Anche se non ha mai funzionato (in 10 anni solo un caso su 7 è arrivato al risarcimento) perché per anni le associazioni hanno continuato a lanciare comunicati per convincere i consumatori ad aderirvi? Solo per incrementare le casse con le spese legali o perché sono riuscite a ottenere un rapporto diretto con le società coinvolte perdendo così l’indipendenza?

di Marco Franchi, da Il Fatto Quotidiano