Per anni la questione dell’autonomia regionale a statuto ordinario (qui altri contenuti sul tema, ndr) è rimasta un po’ nell’ombra; è esplosa nel 2017, quando le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna si sono attivate per richiedere, in base alla procedura prevista dall’art. 116 della Costituzione (nella formulazione dettata dalla legge cost. 18 ottobre 2001 n. 3), una più estesa autonomia allo Stato: nel senso di una potestà decisionale locale sulle materie per le quali ciò è consentito. Poi, con il primo governo Conte, sono state avviate nuove trattative per ampliarla ed estenderla ad altre materie rispetto a quelle già indicate, e, al tempo stesso, altre sei regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania) hanno richiesto di iniziare il percorso procedimentale per ottenere, esse stesse, più autonomia decisionale in talune materie. Il dibattito politico su questo tema, dopo la pausa nel periodo della pandemia da Covid-19, è ora tornato alla ribalta dopo che il Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato un’importante bozza per l’estensione alle regioni a statuto ordinario di maggiori poteri nelle materie consentite.
Per meglio comprendere l’essenza dei problemi oggetto del dibattito politico, sembra opportuna una precisazione del complesso quadro normativo delineato dalla Costituzione su questa tematica. L’art. 117 stabilisce che il governo dello Stato ha il potere esclusivo di emettere leggi su 17 materie (dalla politica estera all’ immigrazione, alle norme generali sull’istruzione ecc.). Invece, su circa una ventina di materie, il potere legislativo concorrente appartiene alle Regioni, ancorché spetti allo Stato la “determinazione dei principi fondamentali”; è, poi, precisato che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.”
Ma l’art. 116 della stessa Costituzione stabilisce, altresì, che per ciò che riguarda una serie di competenze, le Regioni che ne fanno richiesta possono ricevere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”; ma per la loro realizzazione è necessario un accordo fra lo Stato e le Regioni interessate; accordo che, poi, dovrà essere ratificato da una legge, adottata da Camera e Senato con maggioranza assoluta dei suoi membri.
Questo è il quadro normativo di riferimento previsto dalla Costituzione, in conseguenza della riforma costituzionale del suo titolo V: quello che regola i rapporti tra Stato e Regione.
Ma, inizialmente quasi ignorato, il tema ha cominciato, poi, ad essere oggetto di più approfondito dibattito ed è divenuto politicamente molto divisivo, soprattutto con riferimento all’entità delle risorse economiche pretese dalle Regioni sulla base dell’estensione dell’autonomia loro concessa. E’ sorto così l’ulteriore contrasto sui c.d. LEP (“livelli essenziali di prestazione”), che si riferiscono a questi servizi e prestazioni che lo Stato è tenuto a fornire a tutti i cittadini, su base nazionale, indipendentemente dalla loro appartenenza regionale. Per soddisfare i LEP il governo centrale dovrebbe essere tenuto a fornire tutte le risorse necessarie, in modo identico.
Come già si è ricordato, le previsioni costituzionali sul tema dell’autonomia sono rimaste a lungo inattuate, nonostante le spinte di talune regioni (soprattutto del Nord); finché, nel programma della coalizione del centro-destra, in occasione dell’ultima consultazione elettorale, è stata inserita la volontà di procedere in questa direzione sul presupposto – da anni rimarcato soprattutto da Veneto e Lombardia – che una maggiore autonomia delle regioni consentirebbe di fornire ai cittadini servizi più efficienti.
Ma i posizionamenti delle varie forze politiche sul tema dell’autonomia sono molto diversificati e non sembra facile trovare un accordo: mentre la Lega manifesta, da sempre, il suo plauso per la rinnovata attualità dello spirito autonomista, il gruppo di Fratelli d’Italia, che ha una notoria posizione centralista e statalista e che è scettico sulla concessione di maggiori poteri alle regioni, sta cercando di tergiversare e di ottenere l’ennesimo rinvio.
Le regioni del Sud (soprattutto Campania e Puglia, per bocca dei loro rispettivi governatori) si sono dichiarate decisamente contrarie al progetto modificativo presentato dal ministro Calderoli ed hanno prospettato l’alto rischio che esso finisca per favorire le regioni più ricche e per sfavorire quelle più povere: sarebbe la c.d. “secessione dei ricchi”.
In sostanza, il vero problema non sembra proprio quello dell’attuazione, in astratto, di una più significativa autonomia delle regioni a statuto ordinario, in aderenza alle previsioni della Costituzione, bensì quello di come spartire le risorse economiche; questo è il vero nodo, perché, sul piano teorico e ideologico, tutti i partiti politici sono sostanzialmente concordi nel ritenere che un ampliamento dell’autonomia regionale comporterebbe una riduzione della burocrazia, una migliore efficienza e un più penetrante controllo della spesa. Lo scetticismo viene solo da alcune regioni del Sud che temono che la proposta Calderoli possa essere l’occasione per aumentare le disuguaglianze economiche già esistenti tra Nord e Sud.
Insomma, quello dell’autonomia (c.d. differenziata) non ha nulla di ideologico, pur essendosi dimostrato uno dei temi più divisivi e controversi nell’attuale dibattito politico. Esso prescinde dalle posizioni e dagli orientamenti ufficiali dei singoli partiti: basti osservare che il voto favorevole espresso nel Consiglio dei Ministri pare essere stato influenzato soprattutto dalla provenienza regionale dei ministri che lo hanno approvato (sui 25 ministri votanti, solo 5 provengono dal Sud o dalle Isole, 5 dal Centro e ben 15 dal Nord). E’ il segno evidente che il tema stesso ha verosimilmente connotazioni più geografiche (ed economiche) che politiche, in senso proprio; contro la proposta di legge di cui si parla hanno alzato barricate soprattutto alcuni governatori di Regioni del Sud (si pensi ad Emiliano in Puglia e De Luca in Campania) che, pure, appartengono a un partito politico il quale, in sede nazionale, si è dichiarato, in linea di massima, favorevole a concedere maggiori poteri alle regioni.
E’ certo vero che ancora non esiste un criterio tecnico in grado di stabilire, con certezza, che il sistema dell’aumento delle deleghe alle regioni, in taluni ambiti di competenza, piuttosto che in altri, produrrà maggior efficienza; ma tutto lascia pensare che sarà proprio così.
Voglio fare solo un esempio che conosco bene e che mi sembra molto significativo: fino alla fine degli anni ’50 il Veneto era una regione fra le più povere d’Italia, che viveva di agricoltura da colture estensive (cioè povera), che conosceva la sistematica emigrazione dei suoi abitanti e che era priva di risorse. E tutti ben conosciamo lo stereotipo cinematografico di quell’epoca, che dava ai veneti i ruoli del carabiniere tonto o della servetta di casa. Ma, in pochi anni, il Veneto è si è tolto dalla miseria ed è diventato una regione operosa ricca e distributrice di lavoro e di ricchezza per tutto il Paese; non si dimentichi che, in un certo momento postbellico, è stato anche indicato come la “locomotiva d’Europa”.
E tutto ciò è avvenuto in breve tempo, senza che nel sottosuolo sia stato trovato il petrolio o giacimenti d’oro. Tutto ciò è potuto avvenire solo con il lavoro, con l’intraprendenza, con la tenacia e con l’impegno dei cittadini, che si sono rimboccati le maniche e hanno aguzzato l’ingegno, senza mai pretendere risorse aggiuntive dallo Stato o da altre Regioni.
Questa è la sola autonomia che giova al Paese: quella che, senza assistenzialismi, opera sul territorio, utilizzandolo al meglio delle sue possibilità e che sa tradurre il lavoro e l’ingegno in ricchezza. E quando sento dire che il Veneto è una regione favorita rispetto alle altre, perché ricca, mi sento tentato di dar piglio al vituperio …