Di seguito l’inchiesta di Gianfrancesco Turano ne l’Espresso in edicola sulle Autostrade e cosa trovano i nuovi azionisti (pubblici) della società
I pareggi nel calcio non entusiasmano nessuno. Nella partita Autostrade fra il governo di Giuseppe Conte e la famiglia Benetton le diverse faziosità hanno attribuito all’uno o all’altro contendente la vittoria. Ma il segno ics è il risultato più adatto, forse il migliore possibile, in uno scontro iniziato il 14 agosto di due anni fa con il crollo del viadotto genovese sul Polcevera e 43 morti che aspettano giustizia oltre ai 3,4 miliardi di risarcimento messi dalla capogruppo Atlantia sul piatto della transazione con l’esecutivo.
C’è da aggiungere che il match concluso a metà luglio non è l’ultimo del campionato. Al contrario, è il passo d’inizio di una vicenda che minaccia di trascinarsi per mesi, se non per anni, con il rischio di capovolgere i rapporti di equilibrio tra le forze in campo in questa storia ignobile di sangue e finanza.
Il tempo lavora a vantaggio della famiglia di Ponzano Veneto, raccolta nella holding Edizione. Ai fini della determinazione del prezzo, incognita principe nel “deal salvo intese” dell’avvocato di Foggia con il maggiore concessionario privato italiano, Autostrade per l’Italia (Aspi) non può andare peggio di come va oggi.
La società controllata da Edizione attraverso Atlantia ha una capitalizzazione di borsa intorno ai 12 miliardi (quotazioni di inizio settimana) contro i 23,2 miliardi fatti segnare lo scorso 5 febbraio e i circa 25 del settembre 2019, al di sopra del valore prima del crollo del Morandi.
Il cashflow operativo di Aspi prodotto dai pedaggi, nel 2019 è sceso a 1,42 miliardi (-290 milioni rispetto al 2018). L’impatto del Corona virus sul primo semestre 2020 è ipotizzabile in una percentuale negativa a due cifre (-9 per cento nel trimestre gennaio-marzo), anche se i volumi di traffico sono in forte ripresa nelle ultime settimane.
Ci sono poi i debiti (9,3 miliardi di euro) e soprattutto ci sono gli investimenti che da qui a fine concessione (2038) superano i 20 miliardi, due terzi in nuove opere e un terzo nella manutenzione di ponti, viadotti e gallerie che non solo hanno in molti casi superato l’età critica dei cinquant’anni ma spesso sono stati ignorati da custodi e controllori distratti o colpevoli.
Fissare un prezzo a tutto questo per il nuovo socio pubblico di riferimento, la Cassa depositi e prestiti (Cdp), metterà a durissima prova gli advisor incaricati e chiuderà un ventennio in cui le autostrade italiane sono passate da monopolio pubblico a monopolio privato capace di produrre 13 miliardi di profitti aggregati. Oltre a questi utili, i Benetton incasseranno i soldi della cessione del 22 per cento. Un’altra valanga di euro per addolcire un divorzio che poteva essere ben più traumatico.
LA LINEA CASTELLUCCI
Un dirigente Aspi di lungo corso ricorda la linea dei soci privati in questi termini: «Nel 1999, appena arrivati, chiedevano: quanto sono costati i guard rail in manutenzione l’anno scorso? Quest’anno devono costare il 10 per cento di quella cifra».
Dopo il regno di Vito Gamberale (2000-2006 con 12 milioni di buonuscita), a partire dal biennio 2007-2008 la gestione del ceo Giovanni Castellucci ha piegato con decisione verso la logica dell’investimento finanziario dal quale trarre la maggiore redditività possibile. Tariffe basse per l’automobilista (circa 8 centesimi/km oggi) ma contrazione dei costi e degli investimenti all’inverosimile. Così mentre altri concessionari, come i gruppi Gavio e Toto, hanno fatto pagare di più al casello perché estraevano margini dai lavori “in house” affidati alle loro stesse società di costruzione, gli appalti di Aspi si sono basati sulla logica del massimo ribasso con l’effetto di essere poco appetibili per le grandi imprese, peraltro già in crisi per conto loro.
I pretoriani di Castellucci avevano il compito di spazzare via ogni perplessità e sono diventati gli esecutori delle pressioni del loro leader che, su imbeccata dell’azionista e con un piano di fidelizzazione alimentato da bonus milionari, imponeva le sue direttive pensando ai nuovi investimenti all’estero.
L’altro risvolto di questa politica è stato che i progettisti sono stati messi all’angolo, pronti a servire da parafulmine in caso di risultati finanziari inferiori al previsto, inseriti nella lista di chi remava contro quando esageravano nella prudenza e infine terminati per essere sostituiti da nuove leve più malleabili, con un impoverimento graduale di un quadro tecnico che era di prim’ordine fin dai tempi di Autostrade pubblica. Lentamente la Spea, società di ingegneria di Aspi che era guidata da Antonino Galatà, è diventata la discarica di tutte le criticità che mettevano in crisi la corsa al dividendo.
Lo scontro con i pochi controllori del ministero delle Infrastrutture (Mit) era a forti tinte fin dai nomi di battaglia. L’architetto Michele Donferri Mitelli, responsabile delle manutenzioni Aspi, era soprannominato “l’Orco” e aveva come controparte al Mit “il Mastino” Placido Migliorino.
«Le mancate manutenzioni», dice un altro dirigente che chiede l’anonimato, «sono in piccola parte responsabili della situazione e valgono 100-150 milioni all’anno. Il grosso degli extraprofitti, nell’ordine di miliardi, è stato ricavato dai nuovi lavori non effettuati, quelli magari bloccati dalle prescrizioni dei ministeri, si trattasse del Mit, dell’Ambiente o dei Beni culturali, a valle di finanziamenti già concessi».
È il caso della Gronda di Genova, opera invisa ai grillini e agli ambientalisti, che Aspi non ha mai realizzato pur avendo inserito una quota destinata alla sua costruzione nei pedaggi. In questo modo anche gli oppositori delle nuove opere sono diventati i migliori alleati nella corsa al profitto con un caso da manuale di eterogenesi dei fini.
Dopo il crollo del viadotto sul Polcevera, e non appena il traffico autostradale ha ripreso i volumi pre-virus, le ispezioni sono ricominciate sui 3020 chilometri della rete Aspi. Sulle 285 gallerie della rete ligure, 220 sono state passate al setaccio, con ripercussioni catastrofiche per i turisti diretti in riviera. Cinquanta tunnel hanno evidenziato carenze strutturali. In alcuni casi, i rivestimenti erano di dieci centimetri anziché di un metro. La situazione generale di ponti e viadotti è tutto sommato buona per le pile d’appoggio, molto critica per gli impalcati in cemento precompresso che andranno sostituiti da manufatti in acciaio. Non sarà certo un male per i possibili fornitori, dall’Ilva alle aziende di carpenteria metallica, purché non ci siano altri disastri nel frattempo.
Il nuovo socio Cdp, anche prima del suo ingresso formale, può avvalersi del lavoro di verifica affidato a una sua partecipata. È la società di ingegneria Proger, che ha fra i suoi azionisti la Sace-Simest del gruppo guidato da Fabrizio Palermo (20,5 per cento). Proger, fondata da Roberto De Santis, imprenditore salentino vicino a Massimo D’Alema, è presieduta da Chicco Testa, laureato in filosofia. Il vicepresidente è Antonio Mastrapasqua, ex numero uno dell’Inps arrestato nel 2015 e rinviato a giudizio lo scorso autunno per la truffa dell’ospedale Israelitico di Roma.
FRONTE SPACCATO A PONZANO
Il nuovo azionista di riferimento pubblico avrà il suo da fare a riparare la rete manageriale di Castellucci che tardivamente i Benetton avevano iniziato a destrutturare dopo la strage del Morandi con una dismissione della vecchia guardia condotta a colpi di buonuscite d’oro.
Il direttore generale corporate Gianpiero Giacardi ha messo mano a un piano di scivoli per i sessantenni che può riguardare gran parte della prima linea: Gennarino Tozzi, direttore infrastrutture della capogruppo Atlantia, Franco Tolentino, ad di Pavimental, il cfo Alberto Milvio e Alberto Selleri, entrato in Spea trent’anni fa e oggi direttore investimenti di Aspi nonché unico manager a dichiarare a giudici sette mesi fa che «sulla sicurezza di Aspi qualcosa non funziona». Probabile che sia in uscita anche Enrico Valeri, il geometra responsabile della gestione della rete che la sera del 14 agosto 2018 ha telefonato alla società di consulenza Ismes-Cesi per farsi rimandare un rapporto che avrebbe dovuto scagionare Aspi. Valeri è stato anche sentito dai magistrati di Avellino per la seconda inchiesta sul disastro di Acqualonga, quaranta morti proprio sette anni fa quando un pullman sfondò le barriere dell’A16. Nel primo processo Castellucci è stato assolto in primo grado. L’appello è in corso.
A parte le figure più compromesse come Galatà, per il quale in giugno la Cassazione ha confermato la sospensione dai pubblici uffici per un anno a causa dei falsi report sul Morandi, la famiglia veneta ha faticato a liberarsi dell’eredità dell’ingegnere di Senigallia. Il plenipotenziario marchigiano aveva occupato gli spazi principali all’interno del gruppo insieme con Fabio Cerchiai, manager venuto dalle assicurazioni che a oggi ha mantenuto tutti i suoi incarichi nel gruppo. E ci sono voluti quasi due anni di disastri nella comunicazione per interrompere il rapporto con il direttore relazioni esterne Francesco Delzio, uscito alla chetichella da Atlantia lo scorso aprile mentre l’Italia era chiusa per virus e rimpiazzato dal suo omologo in Aspi Stefano Porro, che nella Simest del gruppo Cdp ha già lavorato anni fa.
A Ponzano prima e seconda generazione faticano a mantenere il fronte unito, con Alessandro che spinge per mettersi in proprio mentre il padre Luciano, la zia Giuliana e i cugini figli di Carlo e Gilberto, scomparsi poco prima e poco dopo il crollo del Morandi, si affidano ancora alla regia di Gianni Mion, 77 anni.
La gestione di Castellucci ha lasciato tracce anche nel resto del gruppo. La virata verso lo stile del più spregiudicato private equity ha drenato risorse non solo ad Autostrade, ma anche ad Autogrill, che ha fatto più di una causa amministrativa contro la sorella Aspi. La scommessa sugli aeroporti (Roma, Bologna, Nizza) è a rischio in uno dei settori più colpiti dagli effetti collaterali del Covid-19. Le avventure di Atlantia in Abertis, con un socio di minoranza duro quanto sa essere il presidente del Real Madrid Florentino Pérez e un debito da 28 miliardi, e nell’Eurotunnel investito in sequenza da Brexit e dal virus sono state pagate con il cash-flow del sistema Italia e con una leva finanziaria inquietante anche in tempi di tassi al minimo (38 miliardi di euro di debiti complessivi).
Da questo punto di vista, la fine dell’avventura autostradale con lo Stato italiano è una benedizione.
Dice una fonte interna: «Se non ci toglievano la concessione, Atlantia saltava».
In zona retrocessione, anche un pareggio può fare classifica.
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