Nel 2023 le principali banche italiane quotate hanno registrato utili per 23 miliardi di euro, 28 se si contano le altre. Ovvero, nel primo caso, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, Mediobanca, Popolare di Sondrio e Credem, nel secondo caso Iccrea, Cassa Centrale Banca, la controllata bancaria italiana del Crédit Agricole e della Bnl, la controllata italiana del gruppo Paribas.
L’anno prima (2022), si era arrivati a 15 miliardi di euro, tanto da parlare di “utili record” per le banche, i cui numeri nel dettaglio sono stati analizzati per Il Corriere della Sera, l’edizione oggi in edicola e sul web, da Milena Gabanelli, con l’aiuto – scrive lei stessa – di Arturo Capasso, docente di Corporate Finance alla Luiss, e Francesco Tuccari ex dirigente bancario. Come si è formato e chi beneficia di questo profitto monster: sono le domande a cui l’articolo prova a dare una risposta.
A partire da un aspetto che fa storcere il naso anche a chi non è poi tanto esperto dell’argomento, gli interessi: “Le banche – si legge – guadagnano principalmente attraverso tre diverse attività. La prima è quella di intermediazione di denaro: la banca riconosce un interesse fisso a chi deposita soldi (interessi passivi), e si fa pagare (interessi attivi) da chi chiede prestiti un tasso base di riferimento (l’Euribor per i finanziamenti a tasso variabile, e l’Irs per quelli a tasso fisso) a cui aggiunge un «sovraprezzo», che varia in proporzione alla «rischiosità» dei soggetti finanziati. La differenza è il «margine d’interesse».
La seconda attività riguarda le commissioni che incassa ogni qualvolta effettua operazioni per conto del cliente: dal pagamento di una utenza all’incasso di un assegno, dalla gestione del conto corrente ai bonifici, prelievo contanti con il bancomat, vendita di prodotti finanziari.
La terza attività sono gli investimenti finanziari, dai quali la banca può conseguire un utile o una perdita (proventi finanziari). Nel biennio 2022-2023 è il «margine di interesse» a raggiungere la componente di maggior valore: quasi il 60%.
Cosa è successo? Dalla sua costituzione la Bce ha posto fra i propri obiettivi un livello di inflazione al 2%. All’inizio del 2022, a seguito di 2 anni di pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina con i rincari dell’energia, i prezzi sono esplosi. Per contenerli, nel mese di luglio del 2022, la Bce ha innalzato il tasso di riferimento portandolo nell’arco di 14 mesi dallo 0,5% al 4,50%. Il sistema bancario italiano ha applicato subito questi rialzi, ma solo sui finanziamenti, passati nel biennio 2022-2023 dal 2,13% al 4,76%. Mentre gli interessi riconosciuti ai depositanti sono rimasti pressoché fermi allo 0,20% e solo nell’ultimo trimestre 2023 sono arrivati allo 0,53%. Va detto che ancora oggi molte grandi banche applicano sui deposti a vista lo 0,01%.
Eppure l’art. 118, comma 4, della Legge bancaria dice espressamente: «Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardano contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente». La vigilanza non ha battuto ciglio. Questo comportamento «differenziato» è forse dovuto al fatto che le banche devono fronteggiare un aumento dei costi di funzionamento e le esposizioni verso clienti che non sono in grado di rimborsare i loro crediti? I dati dimostrano che sia i primi che i secondi sono calati”.
L’articolo infatti riporta la circostanza per la quale, negli ultimi 10 anni, le banche hanno drasticamente ridotto il numero di sportelli bancari e il personale, 50 mila impiegati in meno per un trend che i sindacati descrivono come destinato a proseguire nei prossimi anni.
Inoltre, le banche sono anche riuscite a resistere al problema dei “crediti problematici”, grazie soprattutto alla cessione ai fondi specializzati di circa 280 miliardi di crediti deteriorati.
Attenzione poi, ai prestiti a tasso variabile, con il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta che ha recentemente ricordato che nell’ultimo biennio la crescita dei tassi applicati sui mutui a tasso variabile ha determinato un aumento della rata mensile del 50%, passata mediamente da 500 a 750 euro. Facile intuire le conseguenze sull’economia delle famiglie italiane (circa 1,6 milioni) alle prese con questo genere di prestito.
“L’enorme incremento dei utili delle banche quindi – scrive Gabannelli – non è dovuto a una maggiore efficienza, per questo è stato definito «extraprofitto», e su una quota del «margine d’interesse» il Governo, lo scorso agosto, ha annunciato l’applicazione di una «imposta straordinaria» del 40%. Nelle casse dello Stato sarebbero entrati circa 3/4 miliardi da destinare a misure di sostegno per i mutui delle famiglie in difficoltà, al rifinanziamento del fondo mutui prima casa giovani a tasso variabile, oltre a un contributo per la riduzione delle tasse per famiglie e imprese. Le banche sono insorte, e il Governo ha concesso un’alternativa: se non volete dare questi soldi allo Stato potete metterli nella vostra cassaforte per rafforzare il patrimonio. Non ne avrebbero bisogno poiché le banche italiane oggi presentano livelli di patrimonializzazione ampiamente al di sopra dei requisiti minimi di vigilanza richiesti dal regolatore europeo, ma ovviamente tutte le banche hanno aderito”.