Contro la malattia combatteva da anni. Lo sapevano tutti, ne aveva parlato lui per primo, senza falsi pudori. «Sto lottando, ma è dura», aveva scritto negli ultimi sms agli amici di una vita.
Parlandoci, ne avevano colto una voce più stanca, una volontà più vacillante. Da ieri sera Alberto Bucci non combatte più. Il lungo male se l’è portato via, a 71 anni, togliendolo alla sua famiglia, alla moglie e alle tre splendide figlie, al basket che lo piange, senza distinzione di maglie né bandiere, alla Virtus Bologna, di cui restava presidente, dopo esserne stato, per ben tre volte, allenatore: perché sempre, quando la Virtus pendeva, lo richiamava.
Il primo fu l’avvocato Porelli, quando Alberto era un ragazzo, l’allenatore rampante che veniva dai Salesiani, quartiere popolare della Bolognina: venne lo scudetto dell’84, il titolo della stella della gloriosa Virtus. Poi lo riarruolò Alfredo Cazzola, a metà Anni 90: altri due tricolori.
Infine, nel 2004, ricorse alla sua saggezza di uomo di sport a tutto tondo anche Claudio Sabatini, che la Virtus doveva riportare dall’A2 all’A1. Bucci non ce la fece, ma seminò. La promozione sarebbe arrivata l’anno successivo. Tre scudetti a Bologna, tanto bel basket a Pesaro e a Livorno (lo scudetto mancato per un decimo di secondo contro Milano nell’89), a Verona e a Rimini, era partito dalla Fortitudo, l’altra squadra bolognese, che gli diede la prima panchina in A, subentrando a Dido Guerrieri. Già allora, a meno di trent’anni, Alberto lottava: da subito, la polio gli aveva segnato una gamba. E lui, in calzoncini corti come tutti i “sani”, dondolava e sorrideva. Sfidava, senza complessi.
Si era anche specializzato, di recente, come motivatore, praticava una filosofia impastata di studi e di vita. Carlo Ancelotti, amico fraterno, ed Ettore Messina dal Texas, che volle come assistente in quello scudetto dell’84, avviandoli ai noti firmamenti, erano ieri sera tra i primi a dolersi per la scomparsa. Al PalaDozza l’avevano visto fino a poche partite fa. L’ultimissima, a Firenze, Coppa Italia. Operato il giorno prima alla testa. «Che fai, Alberto, vai davvero?». «Il medico ha detto che posso».
Pochi giorni dopo, trovato a casa, fu debolissimo. «Non sto bene, ti richiamo io». Poi il ricovero. Ieri sera, ormai attesa, la notizia della resa. Solo un time out, Alberto. A chi resta avrebbe detto di ricominciare.
da la Repubblica Bologna