(Adnkronos) – "Oggi assistiamo ad un trend costante di crescita del numero degli espatriati sia verso l’Europa che verso paesi extraeuropei. Se un’azienda lancia un progetto in un altro Paese ha bisogno di una presenza che la rassicuri e di norma un espatriato italiano la garantisce. Stesso discorso vale per le aziende estere che devono gestire progetti in Italia". Così, intervistato da Adnkronos/Labitalia, Andrea Benigni, ceo di Eca Italia, legata al network di Eca International, e che si occupa della mobilità internazionale del lavoro. "In sostanza -spiega Benigni raccontando l'attività della società- gestiamo espatriati, favorendo un supporto ai dipartimenti risorse umane in tema di strategia retributiva, modelli organizzativi, planning fiscale transnazionale, focus previdenziali, analisi del costo del lavoro e poi ancora fornitura di dati strategici per la gestione dei manager e tecnici all’estero come il costo della vita o il disagio paese". Ma chi sono i lavoratori espatriati? "Spesso quando si parla di espatriati -spiega il ceo di Eca Italia- vengono associati ai cervelli in fuga, ma è un accostamento sbagliato. I manager che le tante aziende italiane inviano all’estero per periodi più o meno lunghi, sono tutto fuorché cervelli in fuga, in realtà si tratta di 'cervelli in movimento'", sottolinea. "Gli espatriati -aggiunge- sono la frontiera del management, la faccia dell’azienda nella dimensione worldwide. E’ qui che interviene Eca, favorendo un supporto ai dipartimenti risorse umane in tema di strategia retributiva, modelli organizzativi, planning fiscale transnazionale, focus previdenziali, analisi del costo del lavoro e poi ancora fornitura di dati strategici per la gestione degli espatriati come il costo della vita o il disagio Paese", sottolinea. Ma nel mercato globale di oggi come avviene la gestione delle risorse umane espatriate e quale la situazione in Italia? "I modelli organizzativi applicati dalle aziende -spiega Benigni- seguono in generale gli andamenti ondivaghi del mercato: a inizio 2020, nel pieno dello sconvolgimento pandemico molti pensavano che potevamo trovarci di fronte all’inizio della fine della global mobility. E’ stata una riflessione stonata -aggiunge- in quanto il 2020 ha segnato l’inizio di un nuovo approccio alla global mobility con conseguente evoluzione di modelli di gestione alternativi che non hanno peraltro sterilizzato i precedenti, ma al contrario li hanno integrati". "Oggi assistiamo -continua- ad un trend costante di crescita del numero degli espatriati sia verso l’Europa che verso paesi extraeuropei. Se un’azienda lancia un progetto in un altro Paese ha bisogno di una presenza che la rassicuri e di norma un espatriato italiano la garantisce. Stesso discorso vale per le aziende estere che devono gestire progetti in Italia. In questi casi le aziende tendono a distaccare il proprio personale presso le consociate estere o dalla consociata estera verso la capogruppo italiana", sottolinea. "Nel frattempo -continua Benigni- si sono sviluppati nuovi modelli: penso al remote working internazionale che per aziende di taglio medio-piccolo si è rivelata una soluzione efficace. Il mondo dei professionisti della global mobility ha dispiegato tutte le sue competenze ed è tuttora operativo e diffuso lo schema appena richiamato. La pandemia ci ha insegnato che alcuni job possono essere resi con grande efficacia in remoto ed a questo punto risulta indifferente se la resa della prestazione si realizzi dallo studio dell’abitazione del dipendente oppure nel luogo di lavoro all’estero, da casa propria a Milano oppure ad Amburgo per intenderci. Il remote working internazionale ha destabilizzato una quota significativa delle strategie di selezione, le aziende che se ne sono accorte hanno improvvisamente incrementato il loro potenziale bacino di reclutamento", sottolinea. Secondo Benigni "'scaricare a terra' questo modello non è stato peraltro banale: si deve coniugare un modello di gestione con profili normativi complessi che incrociano situazioni contrattuali, retributive, fiscali di più Paesi". Ma in che modo i lavoratori espatriati possono essere messi nelle condizioni di rendere al meglio? La risposta -spiega Benigni- potrebbe sembrare banale: saranno messi nelle condizioni di lavorare al meglio nel momento in cui l’azienda avrà preso piena consapevolezza di quanto possa essere complesso un piano di espatrio. Il candidato all’espatrio (sia esso un candidato interno all’azienda piuttosto che uno esterno) deve percepire che la sua azienda gli sta dando attenzione. In realtà il primo fattore critico di successo -continua- è dotarsi di una policy per l’espatrio, circostanza tale per cui l’assegnazione all’estero diventa parte di un processo, che parte dalla strategia retributiva per atterrare su practice e tecniche che garantiscono la piena compliance fiscale transnazionale, previdenziale e giuslavoristica. Poi c’è il tema migratorio quando si assegna un dipendente in un paese extra Ue. Su questo molte aziende italiane sono ancora indietro, si accorgono di questo eventuale gap procedurale solo dopo. L’espatriato gestito senza policy, prima o poi, si accorge che qualcosa non va ed è in questa fase che si potranno sviluppare problemi di gestione interna", sottolinea il manager. Ed Eca Italia sviluppa un'attività importante nel proprio ambito di intervento. "Abbiamo chiuso il nostro 2023 con circa 400 clienti nel nostro portafoglio tra cui molte grandi aziende e moltissime pmi. In realtà le aziende servite sono ben superiori alle 500, laddove una volta ingaggiati dall’azienda è frequente entrare in contatto con le consociate estere della capogruppo italiana. Le caratteristiche dei clienti sono molto eterogenee, si può passare dalla grande azienda internazionale al modello che Vittorio Merloni definiva la 'multinazionale tascabile'. I settori che copriamo sono praticamente tutti, dai beni di consumo durevole al largo consumo passando per cantieristica, ingegneria, oil&gas e farmaceutico", sottolinea. "La nostra organizzazione -spiega ancora- è sviluppata su 3 sedi, Milano (direzionale), Roma (sede legale) e Catania (hub della compliance internazionale). Le aree operative su cui ci muoviamo sono molteplici: l’area tecnica della consulenza sviluppa strategie, policy per l’espatrio e planning fisco/previdenziali internazionali, i dipartimenti riconducibili ai servizi professionali si misurano con il cliente in tema di immigrazione (italiana ed estera), compliance fiscale internazionale (italiana ed estera), previdenza piuttosto che payroll internazionale. Eca è entrata a far parte della Mwc (Mobile workforce collaborative) e questo ci mette nelle condizioni di poterci confrontare regolarmente e continuativamente con professionisti seduti in ogni parte del mondo. inviando all’estero un manager si dovrà tenere – sempre – in elevata attenzione il combinato delle norme dei due paesi coinvolti", aggiunge. E lo sguardo è rivolto al futuro. "Il primo progetto -spiega è continuare a crescere, dando solidità e ulteriore futuro al nostro piano industriale: il 9 marzo prossimo la nostra società compirà 30 anni di vita in Italia. Siamo un modello di business che ha creato successo attraverso un approccio discontinuo: siamo organizzati nella forma di un’azienda che offre servizi professionali, ma siamo anche un’azienda che non ha dimenticato la propria origine, Eca Italia è un progetto che nasce da una costola del mondo delle risorse umane. Questo è un nostro obiettivo, tenere alta la relazione con il mondo delle risorse umane. Nel 2024, di concerto con il Politecnico di Milano, supporteremo una survey sul remote working internazionale, misurando da vicino come questo fenomeno si è evoluto nel nostro paese. Altro progetto è creare occupazione: è in questa direzione che vogliamo correre, coinvolgendo consulenti in grado di muoversi con agilità nella fitta ragnatela con cui le aziende devono misurarsi nel momento in cui una loro risorsa viene inviata all’estero", conclude. —lavoro/datiwebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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