Blackout game e Balconing, giochi estremi: Agorà. La filosofia in piazza, una riflessione sui drammatici fatti di cronaca

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Blackout challenge
Blackout challenge

A Palermo, a soli dieci anni, una bambina muore auto-strangolata, partecipando, su una piattaforma social, ad un folle “gioco” molto in voga tra i ragazzi, ossia una sfida di soffocamento, in cui “vince” chi resiste di più stringendosi una cintura al collo.

Di fronte a una simile tragedia le parole rischiano di risultare vuote, di suonare inopportune e inadeguate. E tuttavia proverò a dire qualcosa, per offrire a genitori e figli, a insegnanti e studenti, senza la presunzione di esaurire in poche righe l’argomento, qualche spunto di riflessione, magari un punto da cui partire per orientarsi.

Lo psicologo Grégory Michel, in un articolo dal titolo significativo[1], descrive questo fenomeno, la cui diffusione è allarmante, descrive cioè il «gioco del foulard», chiamato anche blackout game.  L’autore avanza diverse ipotesi psicologiche sulle sue cause, ipotesi che hanno a che fare con i bisogni tipici dell’adolescente, in quella delicata fase della sua vita in cui è alla ricerca della propria identità: per esempio, il desiderio di sensazioni forti, il desiderio del rischio, il desiderio di esplorare i limiti e trasgredire, il desiderio di emulare i propri modelli, il desiderio di mettersi alla prova, il desiderio di venire riconosciuto, il desiderio di vincere un senso di inferiorità.

Nella stessa direzione va un altro altrettanto utile articolo, di Giovanni Sabato, che descrive anche altri “giochi pericolosi”, altri “divertimenti estremi”, come per esempio il balconing, ossia il saltare da un balcone a un altro, e in cui l’autore cerca di rispondere alla domanda: «Che cosa spinge gli adolescenti a sperimentare comportamenti pericolosi o a esagerare con le sostanze?»[2].

Entrambi gli articoli, inoltre, sottolineano che tanto più oggi gli adolescenti, o addirittura i preadolescenti, possono venire attratti da questi comportamenti, considerata la possibilità di venire “riconosciuti” da un vasto “pubblico” nel web, di diventare “popolari”: il rischio della diffusione del fenomeno è perciò quanto mai alto, perché i social media rischiano di alimentarlo, aumentando la tendenza alla emulazione.

Io, scrivendo da filosofo e non da psicologo, ritengo importante evidenziare, per dare il mio contributo alla comprensione del fenomeno, che alla sua base c’è anche, se non soprattutto, la mancanza di motivazioni che orientino nella vita, c’è la mancanza di consapevolezza e di chiarezza sul perché valga la pena fare quello che facciamo, a scuola, nel lavoro, nelle relazioni, nella vita in genere: ciò che troppo spesso manca, agli adolescenti ma in realtà anche agli adulti, è la consapevolezza dei valori che possiamo realizzare nel fare quello che facciamo e che danno senso alla nostra vita. Come ha insegnato Viktor Frankl, la fondamentale esigenza dell’essere umano, la sua fondamentale motivazione, è quella di dare senso alla proprie esperienze, alla propria vita, al di là dei bisogni fisici, psichici e sociali: se non diamo soddisfazione a questa esigenza che potremmo definire “spirituale”, soffriremo di un disagio esistenziale, di una sensazione di vuoto, anche se magari avremo soddisfatto quei bisogni fisici, psichici e sociali[3].

E non si tratta, si badi bene, di indottrinare l’adolescente con un sistema e una gerarchia di valori prefissati, nei quali magari egli non si riconosce e che quindi non lo possono motivare: si può, e si deve, aiutare l’adolescente a scoprire i propri valori, i propri perché.  A ciò potrebbe e dovrebbe servire il dialogo, in famiglia, a scuola, nei vari contesti sociali e, eventualmente, con un professionista dell’aiuto.

[1] G. Michel, Il ragazzo che giocava con la morte, «Mind», n. 188, 2020, pp. 34-43.

[2] G. Sabato, L’età dell’incoscienza, «Mind», n. 188, 2020, pp. 27-33.

[3] V.E. Frankl, Senso e valori per l’esistenza, Città Nuova, Roma, 1998.


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a cura di Michele Lucivero

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