In questi giorni ho potuto vedere le immagini di quello che sta succedendo in Bolivia dove, dopo un colpo di stato, una senatrice, tale Jeanine Añez, si è autoproclamata “presidenta”.
Questa “signora” è l’emblema dell’alta borghesia bianca sudamericana. Fondamentalista religiosa (sedicente cristiana) ha sventolato la bibbia dicendo che finalmente Dio rientrava nelle istituzioni boliviane, ha dichiarato che gli indios sono dediti a pratiche sataniste in quanto “venerano” la Pachamama (la Madre terra) e che non devono vivere nelle città ma solo negli altopiani. Per questa “signora”, quindi, gli indios non hanno il diritto di essere considerati alla stregua dei “bianchi”. Non devono avere gli stessi diritti. Sono inferiori. Così, per dimostrare il predominio della casta alla quale appartengono, i “padroni bianchi” della Bolivia (che altro non sono che vassalli dell’impero e delle multinazionali statunitensi avide delle enormi risorse naturali di quel paese, dagli idrocarburi al litio …) bruciano la “whilapa”, la bandiera simbolo delle nazioni indigene e della loro unità. È il chiaro messaggio che i diritti conquistati dalle popolazioni indigene, grazie al governo di Evo Morales, verranno presto cancellati.
“Che gli indios tornino pure al loro ruolo di subumani, che non possano più interessarsi al governo del paese e diventare proprietari delle sue risorse”, questa è, di fatto e in poche parole, la volontà dei golpisti boliviani.
Ma qualcosa di diverso da quello che volevano sta succedendo. Qualcosa che lorsignori non riescono a comprendere. Gli indios non accettano di essere discriminati. Non vogliono tornare a testa bassa a fare i servi come vorrebbero i nuovi governanti che hanno usurpato la volontà del popolo. Un popolo che ha preso coscienza della sua condizione di insieme di donne e uomini liberi e uguali a chiunque. Questo è uno dei grandi risultati del governo socialista di Evo Morales (costretto, oggi, all’esilio in Messico). Per questo si battono per il ripristino della legalità e lottano scendendo a mani nude e con la loro bandiera (la whipala) verso le stanze del potere. Sono migliaia, decine di migliaia. Vengono alla capitale a piedi, percorrendo decine e decine di chilometri. Un fiume in piena formato da tantissime donne e uomini, da giovani e vecchi, da bambini. Un popolo che innalza le proprie bandiere, persone fiere vestiste con i colori intensi dei popoli andini. Colori che si vedono da lontano e sembrano scacciare la malinconia. Le voci che si ascoltano sono semplici, antiche, parlano spagnolo e quechua o aymara. Idiomi duri come sono le montagne e i territori del paese. Con semplicità dicono poche parole chiare e nette. Non vogliono trattare con gli usurpatori, esigono la loro cacciata. Vogliono vivere a testa alta. Vogliono che le risorse e le ricchezze nazionali non siano cedute a qualche multinazionale o a qualche latifondista o capitalista boliviano. Le vogliono per loro, per il loro futuro, perché le nuove generazioni possano vivere meglio di loro. Vogliono essere liberi e capaci di costruire il proprio futuro. Per questo scendono armati solo della ragione e circondano i palazzi del potere, pronti anche a morire se necessario. Perché essere uccisi da esercito e polizia o da bande paramilitari della destra, oggi in Bolivia è facile. E loro sono abituati a questo da secoli.
In pochi sono stati assassinati circa trenta indios che manifestavano contro il governo illegittimo e più di settecento sono i feriti dalle pallottole sparate anche dagli elicotteri durante le durissime repressioni avvenute a Cochabamba, a El Alto (dove proprio oggi la polizia ha ucciso almeno due persone) e in altre città del paese andino. Il popolo viene massacratoi ma non lascia il campo. Insiste nella lotta. Sa che la sua forza è nell’unità e che solo con essa si potrà ottenere la sconfitta degli usurpatori che oggi vogliono depredare il paese.
Di tutto questo si sa poco. I nostri telegiornali, i nostri “media” dicono poco o nulla. Dall’estero importano notizie spesso preconfezionate su quello che succede a Hong Kong o in Iran. È una maniera pilotata di fornire le informazioni. Serve a costruire una visione univoca di quello che succede nel mondo. Quando il popolo ha l’ardire di alzare la testa contro il capitalismo e l’imperialismo è meglio che non si sappia.
Ma se si guardano le immagini diffuse da qualche media sudamericano in diretta, si vede un fiume di persone che vogliono far valere i propri diritti, che vogliono conquistare condizioni migliori di vita. Si vedono popoli interi formati da fratelli e sorelle, come loro stessi si chiamano, che resistono alla brutalità e alla voracità dell’imperialismo e dei suoi fedeli sudditi.
Si aprano gli occhi, si guardi bene e si tenti di capire … quei popoli ci stanno insegnando che un altro mondo è possibile e che, anche se alla fine saranno costretti alla resa dalla forza brutale degli sfruttatori, non accettano di essere considerati poco più di animali. Lottano per vivere e non per sopravvivere, pronti anche a morire per questo.
Lo fanno per loro e, anche, per ognuno di noi.
A tutte le sorelle e i fratelli boliviani e latino americani che resistono e lottano per la dignità e la vita, mi sembra giusto dedicare un frammento di un bellissimo romanzo del 1964 scritto dallo scrittore peruviano José María Arguedas. Si intitola “Tutte le stirpi” (Todas las sangres). È la pagina conclusiva di una storia “corale” che ha come protagonista il popolo andino e molte attinenze con quello che sta succedendo in Bolivia. È anche una maniera di ricordare Arguedas, grande studioso della cultura indigena andina, del quale tra breve (il 2 dicembre) ricorrerà il cinquantenario della morte.
…
– Capitano! Signor capitano! – disse in quechua Rendón Willka – Adesso, in questi paesi e fattorie, i grandi alberi non piangono più. I fucili non spegneranno il sole, ne potranno seccare i fiumi, e tanto meno togliere la vita a tutti gli indios. Continui a fucilare. Noi non abbiamo armi perché non valgono. Il nostro cuore è infiammato. Qui e dappertutto. Abbiamo finalmente conosciuto la Patria. E lei non può uccidere la Patria, signore. È là, sembra morta. No! Il “pisonay” piange, spargerà i suoi fiori per tutta l’eternità dell’eternità, e crescerà. Ogni triste, domani allegra. Il fucile è sordo, è un palo, non capisce. Siamo uomini che vivranno sempre. Se vuoi, se ti piace, uccidimi, dammi la piccola morte, capitano.
L’ufficiale lo fece uccidere, ma rimase solo. E anche lui, come gli altri poliziotti, sentì un suono come di grandi torrenti che facevano tremare il sottosuolo. Era come se le montagne iniziassero a muoversi.
Alla stessa ora, nel carcere della capitale della provincia, Adrian K’oto abbracciava don Bruno. Gli “estremisti” erano perseguitati ma continuavano a parlare. Gli indios e gli operai delle miniere dichiaravano sciopero esigendo maschere antigas e contro la polvere, aumento dei salari, cibo migliore. Lo “Zar” diceva a Palalo: “gli indios di oggi sono codardi, distrutti dalla fame e il vizio dell’alcol e della coca. Cento uomini ben armati sono già stati inviati in quella provincia. Uccideranno qualcuno, quel Rendon per primo, e gli altri si arrenderanno e fuggiranno. Torneranno a lavorare meglio di prima e anche per minori salari e meno cibo. Quello che mi preoccupa di più è Fermin Aragon de Peralta. Peccato che suo fratello non lo abbia ucciso! Lui mi preoccupa. I suoi affari nella pesca e nella farina di pesce possono dargli milioni. Tutti questi milioni li impiegherà per sobillare gli indios tradizionalmente tranquilli. Il prossimo governo deve essere ancora più forte. Dobbiamo evitare che il Perù si sviluppi, bisogna continuare a frenarlo …
- E questo rumore, presidente?
- Che rumore Palalo?
- Non lo sente? Presti attenzione. Sembra che un fiume sotterraneo inizi a crescere
- La notte brutta, Palalo! Ti stai indebolendo – rispose lo Zar – io non sento niente. Sono sano di corpo e la mia coscienza risponde solo a quello che ordina la mia volontà.
Anche la “kurku”sentì. Don Bruno sentì. Don Fermin e Matilde lo sentirono con un entusiasmo timoroso. Don Adalberto piangeva in una cima, accompagnato da altri venti poliziotti.
- Sono nudo? – domandò – questi indios fatti crescere dal Rendón mi hanno gelato. Credo che mi abbiano gelato per sempre.
(“Note: Zar” è il soprannome del presidente della compagnia mineraria; Palalo è il suo fedele “servo”; don Adalberto è il latifondista malvagio; don Fermin e don Bruno sono fratelli ricchissimi e nemici tra loro; la kurku è la serva “gobba e nana” di don Bruno che la mette incinta; Rendón Willka è un indio libero che ha studiato a Lima e che rappresenta la coscienza del popolo)