Boom di preferenze per le Università telematiche nel dopo-Covid. “Agorà. La Filosofia in Piazza”: colpa dell’assenza di veri maestri?

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Università telematiche
Università telematiche

Si chiama in gergo tecnico “eterogenesi dei fini”, un concetto attribuito anche al filosofo italiano Giambattista Vico, e indica una finalità generale e implicita nella storia dell’umanità, ma che non è sempre così lineare e, talvolta, corre il rischio di avere delle involuzioni o delle rovinose cadute, che, detto in soldoni, vuol dire che, talvolta, per risolvere un problema, se ne crea un altro altrettanto o, forse, ancor più grave del precedente.

E, allora, proviamo a vedere cosa è accaduto, come conseguenza della pandemia da Covid-19, alla scuola e all’Università italiane in seguito alla rivoluzione avvenuta con la Didattica a Distanza, la Didattica Digitale Integrata e la Didattica on Demand, la cui invenzione va attribuita ad un Governatore regionale, il pugliese Michele Emiliano, e non ad un esperto di pedagogia.

È accaduto, in sostanza, ciò che ci segnala, e che noi accogliamo con una certa preoccupazione, sebbene l’avessimo ampiamente previsto, una ricerca del portale Skuola.net, in collaborazione con il CFU – Centro Formativo Universitario, i quali hanno intervistato un campione di 5.500 alunni e alunne delle scuole superiori per capire se, alla luce dell’esperienza pandemica, avrebbero optato per una proposta formativa “telematica” oppure per una università “fisica” tradizionale.

Il risultato dell’indagine è impietoso, oltre ad essere letteralmente devastante per chi crede che la scuola, le università e le accademie siano luoghi in cui si mette al centro una lezione tematica per poi seguire linee di fuga su cui si innestano i contributi costruttivi di tutti i partecipanti, in modo da costruire insieme percorsi di formazione e sentieri di crescita collettiva. Il risultato, si diceva, è che ad oggi più di una matricola su due potrebbe seriamente valutare l’iscrizione ad un ateneo online.

Dalla ricerca emerge, dunque, che ciò che diventa davvero determinante, alla luce dell’esperienza prodigiosa della Didattica a Distanza, è l’offerta formativa, non la modalità di erogazione della stessa e su questo concordano, ovviamente per quel che riguarda i propri interessi, anche i genitori intervistati, i quali, pur di tenere a casa i propri figli, hanno ritenuto al 60% del campione di preferire una modalità di formazione universitaria telematica.

È chiaro che le alunne e gli alunni delle scuole superiori intervistati non sono mai venuti in contatto con le dinamiche accademiche, anche perché le occasioni di orientamento in uscita sono state limitate a pochi incontri, anch’essi svoltisi online, per cui è evidente che il loro giudizio risulta fortemente condizionato dalla proiezione dall’esperienza scolastica degli ultimi due anni su una eventuale prosecuzione nelle stesse modalità anche per la formazione universitaria.

Ma bisogna dirlo con chiarezza, una volta per tutte, come si è svolta in questi due anni la Didattica a Distanza, risoltasi lo scorso anno scolastico in un generale salvacondotto che ha traghettato tutti e tutte verso una promozione incondizionata e ciò non faccia di noi dei sostenitori della valenza educativa dalla bocciatura, ma è solo per evidenziare lo stato d’animo in cui si dà la preferenza alla modalità telematica rispetto a quella in presenza. Del resto, ancora oggi, i docenti della scuola secondaria di primo grado e secondo grado si trovano nella totale impossibilità di valutare la trasparenza delle conoscenze e delle competenze dei propri alunni e delle proprie alunne, dal momento che sia per l’orale sia per lo scritto le esperienze di alterazione delle prestazioni, svoltesi nella stragrande maggioranza dei casi con le telecamere spente, sono state pressocché infinite e, ancora una volta, ciò non faccia di noi dei sostenitori della sorveglianza armata durante le verifiche, ma è solo per mettere in chiaro quale potrebbe essere la proiezione dell’atteggiamento nei confronti dello studio delle ragazze e dei ragazzi nel momento in cui pensano alla loro vita universitaria.

Non solo, l’indagine di Skuola.net è andata anche a sondare il territorio tra gli attuali iscritti universitari, i quali nella proporzione di circa 1 su 4 si sono ritenuti insoddisfatti di come le proprie università hanno gestito da Didattica a Distanza, lasciando intuire che, se avessero potuto tornare indietro, avrebbero optato per una delle tante università telematiche disponibili, nella convinzione che queste ultime avrebbero gestito meglio la situazione.

Alla luce di questi dati, sempre da interpretare, non possiamo che recitare la Requiem aeternam per la scuola e per l’università, concepite proprio in quella dimensione “tradizionale”, anche correndo il rischio di essere ritenuti dei conservatori, ma che per noi vuole dire, invece, relazione di prossimità, di vicinanza, di sostegno, di volti che si scrutano, di parole che esulano la mera lezione stretta nello spazio del video e nel tempo di 45 muniti in subordine ai capricci della connessione.

La scuola ha fallito perché ci siamo attrezzati per essere sempre più professori e meno maestri, sempre più esperti in tecniche didattiche, architettate ad hoc per non fare annoiare gli alunni con i nostri contenuti, e meno attenti alla dimensione del progetto educativo-relazionale che un esperto della conoscenza deve mettere in atto, non senza agganci con la realtà in cui vive.

L’università tradizionale, o ciò che resta dell’università tradizionale, ha fallito due volte: da un lato perché era chiaro che non poteva competere a livello strumentale con chi aveva già da tempo organizzato la propria proposta formativa intorno a percorsi spersonalizzanti di formazione online, finalizzati ad ottenere esclusivamente il titolo; dall’altro, perché già da tempo in alcuni atenei la distanza fisica e intellettuale tra docenti e studenti si era così ampliata che, alla fine, si era arrivati a smantellare i rapporti personali con i propri studenti, quelli che divenivano occasione di crescita intellettuale, sempre al di là della lezione.

E, così, alla prossima pandemia ci accorgeremo che, forse, anche la lezione sarà del tutto inutile e anche di professori e di professoresse non ci sarà bisogno, dal momento che i ragazzi e le ragazze sapranno già leggere e comprendere autonomamente un testo scritto o, al limite, aiutati dalle sintesi vocali. Siamo evidentemente davanti ad una linea di “displuvio storico”, in cui dobbiamo continuare a incoraggiare e a tenere in piedi quelle strutture in cui non ci sono solo professori e professoresse, ma maestri e maestre che sviluppino rapporti di prossimità con i propri studenti e le proprie studentesse, magari organizzati intorno a seminari, gruppi di studio, contenitori fisici di prossimità, scambio e incontro, tutte occasioni di crescita, formazione e riflessione.

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a cura di Michele Lucivero

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