Nel nostro articolo del 12 novembre a firma di Fulvio Cavallari “Popolari venete in LCA, liquidatori: i buchi sentenziano che pagati Intesa Sanpaolo e Stato nulla resta. Peccato originale del crac: si sa in Vaticano?” oltre al rinvio a dubbi sull’origine del doppio crac di BPVi e Veneto Banca, che solo Via Nazionale potrebbe dissolvere, c’era un significativo sotto titolo: “Un’altra domanda senza risposta: chi ha guadagnato, tanto, non restituendo i prestiti ricevuti dalle due banche popolari venete?”.
A questa domanda dà una qualche (prima?) risposta il collega Maurizio Crema su IlGazzettino.it del 15 novembre ma alla sua utile analisi premettiamo una annotazione di ambienti vicini a Veneto Banca (VB) che ci sembra corretto condividere con i lettori perché, a nostro parere, non lontana dal vero o, almeno, parte importante, anche se spesso omessa, della storia ancora da (ri)scrivere dei due crac, ben diversi tra di loro anche se conclusisi ugualmente male per i più deboli, i piccoli azionisti: questa è una nostra certezza.
Veneto Banca: l’altra verità, parte di quella totale ignota
Ecco la sintesi delle osservazioni di questi ambienti: “L’articolo è vero per i numeri attuali ma è vero anche che i crediti sono stati svalutati per circa 2.240,7 milioni e questo è avvenuto in circa 8 anni. Ciò sta a significare una media di 280 milioni all’anno, che è più o meno la cifra come onere del credito che annualmente VB metteva a bilancio, quindi la normalità. Peccato che in tutto questo i crediti buoni (passati ad ISP, Intesa Sanpaolo) abbiano prodotto utili che sono andati sul bilancio di ISP e non su quello di VB in LCA. Se fossero finiti in VB, gli utili avrebbero sicuramente compensato le perdite e non ci sarebbe alcun deficit patrimoniale. Senza considerare, tra l’altro, l’onere sostenuto dallo Stato, circa 2.3 miliardi (solo per VB più altrettanto per BPVi per un totale, a questa voce, di 4.75 miliardi di euro, ndr) per dare soldi a ISP – senza avere nulla in cambio – mettendolo tale onere a carico della VB in LCA. Follia pura. Con MPS non è avvenuto così: lo Stato si è fatto dare azioni MPS che ha venduto e sta ancora vendendo, rientrando così dell’esborso fatto”.
Autonomia del Veneto: persa nel silenzio da tempo quella finanziaria
A queste osservazioni, che dovrebbero rientrare, lo ripetiamo, in una valutazione complessiva dei fatti e degli antefatti (per Vb e per BPVi) ad oggi non compiutamente effettuata, anche perché, è una nostra opinione, alla sede tecnica andrebbe affiancata quella politica, in cui andrebbero ben ponderati il ruolo di BankItalia, lo storico opinion maker dei vari governi, e il “peso” di Intesa Sanpaolo, andrebbero aggiunte le parole di un autonomista lontano o allontanato dalle stanze veneziane che contano: “Si parla tanto di autonomia ma chi ha preservato quella finanziaria del Veneto che ha visto dissolversi nel tempo la Cattolica, la Popolare di Verona, l’Antoniana e poi la Popolari venere, trasferendo capitali a nord ovest e impoverendo il nostro territorio? Chi ha mosso un dito per far rimanere in Veneto, contro disegni superiori, quelle banche che, sole, potevano assicurare la vera autonomia, quella della finanza che alimenta l’economia produttiva locale?”.
BPVi, il macigno delle sofferenze
Se la domanda rimane senza risposta visto che questa (“nessuno”) è implicita nella domanda stessa, torniamo all’articolo di Maurizio Crema che risponde in parte alla nostra domanda per lo meno lato BPVi: “Chi ha guadagnato, tanto, non restituendo i prestiti ricevuti dalle due banche popolari venete?”
Emerge un quadro devastante dai numeri della Banca Popolare di Vicenza (BPVi) e della sua controllata Banca Nuova, dice infatti Crema come sintetizziamo d’ora in poi e tenendo a mente che a volte i debitori, per i quali, quindi, vanno fatti dei distinguo, sono affogati nel vortice delle baciate (acquisto di azioni finanziate dalla banca stessa) e/o dell’azzeramento del valore dei titoli in loro possesso: oltre 5,6 miliardi di sofferenze al 30 giugno 2017, con 1,2 miliardi legati ai 100 maggiori debitori. Questi dati rappresentano solo una parte del dissesto che ha portato l’istituto bancario alla liquidazione coatta amministrativa, con gli attivi trasferiti a Banca Intesa.
Tra i nomi più noti figura Monte Mare Grado, società riconducibile all’ex presidente del Venezia, Maurizio Zamparini, con un’esposizione di 59,2 milioni. Accanto alle sofferenze, emergono i crediti incagliati per 1,69 miliardi: un patrimonio ancora formalmente recuperabile ma ad alto rischio, in un contesto complessivo di “unlike to pay” (UTP) pari a 4,24 miliardi tra BPVi e Banca Nuova
Costruzioni e lusso in crisi
Le difficoltà finanziarie non risparmiano settori diversi, dai costruttori ai gruppi del lusso. Tra i primi, molte imprese non sono sopravvissute allo scoppio della bolla immobiliare. Nel lusso spiccano nomi come Mariella Burani Fashion Group, con 7,6 milioni di sofferenze, e la vicentina Vimet, gigante della gioielleria fallito pochi mesi fa, esposto con BPVi per oltre 43 milioni (era azionista con oltre 80mila azioni). La società avrebbe investito pesantemente anche in Veneto Banca ma nel gennaio del 2015 sarebbe riuscita a liquidare la partecipazione in Montebelluna, si parla di 355.000 azioni”.
Tra i debitori emerge anche Nsfi Srl, collegata all’ex candidato sindaco di Roma Alfio Marchini, con 62,5 milioni di sofferenze. Non mancano realtà legate al turismo, come l’Hotel Dolomiti di Cortina (19 milioni di debiti), e nomi storici come Tirrenia di Navigazione (16 milioni). Tra gli imprenditori veneti, Tranquillo Loison e famiglia sono esposti per oltre 12 milioni, mentre Aeroterminal Venezia, fallita, contribuisce con 8 milioni. L’elenco comprende anche la Sacaim, storica impresa veneziana di costruzioni, in sofferenza per oltre 5 milioni prima di passare sotto il controllo della Rizzani de Eccher.
L’incrocio con Banca Etruria e le operazioni baciate
L’intersezione con Banca Etruria aggiunge complessità alla vicenda. Due società, Etruria Investimenti (7,2 milioni di sofferenze) e Sant’Angelo Outlet (12 milioni), sono legate all’ex presidente Lorenzo Rosi e all’ex consigliere Luciano Nataloni, entrambe oggetto di perquisizioni nel 2016.
Nei crediti incagliati spuntano i nomi legati alle cosiddette operazioni baciate, finanziamenti concessi per l’acquisto di azioni BPVi. I fratelli Ravazzolo, imprenditori vicentini dell’abbigliamento, devono quasi 47 milioni, mentre Ambrogio Dalla Rovere e Susanna Michelazzo “sommano”, sempre secondo i dati di Crema, oltre 11 milioni. Furio Bragagnolo, leader di Pasta Zara, ha UTP incagliati per 18 milioni, mentre il gruppo padovano Maschio Gaspardo, segnato dal suicidio del fondatore Egidio, ha oltre 10 milioni di debiti. Tra i debitori più recenti compare Sorgente Group International Holding Ltd (soggetto distinto da Sorgente Group spa e sottoposto alla vigilanza inglese) con una sofferenza di 28,5 milioni ma soggetta a un contenzioso che riguarda un finanziamento erogato attraverso BPVi Finance International Plc, partecipata irlandese della BPVi “chiusa nel 2016 dopo una perdita di 99,8 milioni nel 2015, da lì sarebbero transitati gli investimenti di via Btg. Framarin sui fondi lussemburghesi che avrebbero acquistato finanziato delle azioni”, scrive Crema.
Sorgente sostiene, aggiunge il collega del Gazzettin, oche “Alla scadenza del termine, Bpv Finance International Plc ha disatteso gli impegni di riacquisto e, conseguentemente, non ha riconosciuto le somme dovute a Sorgente International Holding Ltd. Per tali motivi si è aperto un contenzioso internazionale» perché la valutazione dei titoli di Popolare Vicenza «successivamente è risultata del tutto artefatta e strumentale e, certamente, non in grado di soddisfare gli impegni assunti dalla sua partecipata estera»”.
E Crema conclude così: “Uno spaccato di quanto è successo in BPVi”.
Un sistema collassato
La vicenda della Popolare di Vicenza e quella, cugina, di Veneto Banca rappresentano, quindi, come diceva l’autonomista “bannato” dalla politica, uno spaccato di mala gestio finanziaria e intrecci controversi tra politica, imprenditoria e banche: un’eredità che continua a pesare sul tessuto economico e sociale del Nord-Est, che vuole oggi l’autonomia ma ha perso già, e definitivamente, quella finanziaria.
Il resto a questo punto richiama alla mente i versi centrali della canzone di Mina: “Parole, parole, parole, parole. Parole, soltanto parole. Parole tra noi”.