Dopo la sua seconda e mistica conversione, Blaise Pascal avrebbe voluto scrivere un’apologia del cristianesimo, che non riuscì mai a completare a causa della sua prematura morte.
In uno dei foglietti trovati tra i lavori preparatori dell’opera e pubblicati postumi con il nome di Pensieri[1], il filosofo scrive: «Se non si dovesse far nulla, se non per quello che è certo, non si dovrebbe far nulla per la Religione, perché non è certa. Ma quante cose si fanno per l’incerto, i viaggi per mare, le battaglie! Dico allora che non bisognerebbe far niente del tutto, perché niente è certo».
E più avanti Pascal osserva che «quando si lavora per il domani e per l’incerto, si agisce con ragione, perché si deve lavorare per l’incerto, per la regola delle probabilità, che è dimostrata».
Mi sembra importante sottolineare due cose di questo pensiero.
In primo luogo che “niente è certo” e, se nella vita dovessimo usare come guida per l’azione la certezza, non faremmo nulla e saremmo come paralizzati.
Come l’asino di Buridano, ci troviamo spesso tra due posizioni antitetiche ed abbiamo difficoltà a decidere perché ambedue possono sembrare avere un fondo di certezza: poi basta l’autorevolezza o il fascino che esercita il nostro interlocutore per abbandonare posizioni all’apparenza più solide e basate su argomentazioni stringenti e scegliere quelle opposte.
Tante volte la retorica batte la logica e la certezza va a farsi benedire. Addirittura la religione è segnata dall’incertezza: non c’è tradizione né prova né dogma che possa evitare questa condizione perché la fede per Pascal non è un dato oggettivo, ma è un dono che ha a che fare con il cuore, cioè con una dimensione intima e soggettiva.
In secondo luogo, è il caso di notare che, nonostante tutto, per Pascal il trovarsi nell’incertezza non spinge ad abbandonare la ragione – era pur sempre uno scienziato lui -, ma al contrario ci obbliga ad usarla con finezza: l’incerto è sempre legato al futuro, a ciò che sarà e non è ancora, al progetto e alle possibilità, insomma a quello che è contingente e non necessario.
Ma proprio in questo stato è possibile seguire una regola: quella della probabilità. Una regola che a ben vedere è una non-regola, perché prescrive l’elasticità mentale e l’abbandono di rigidità cognitive e comportamentali per riuscire a ricalibrare di volta in volta il percorso (il metodo) migliore.
Sono temi, questi fin qui esposti, tutti ripresi all’inizio del Novecento dal filosofo Martin Heidegger nell’opera Essere e tempo[2], argomenti, quindi, ben noti agli heideggeriani italiani.
Eppure, da quanto si legge negli ultimi mesi, la cosa non sembra acquisita: è di qualche giorno fa l’articolo pubblicato sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a doppia firma di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, in cui i due filosofi italiani denunciano a seguito dell’introduzione del “green pass” la discriminazione di una categoria di persone” che non si vuole vaccinare e l’avvento di un dispotismo antidemocratico. Dopo aver citato i regimi dispotico di Cina e Unione Sovietica, in cui vigono tracciamenti e controlli (quello che chiede in Italia l’epidemiologo Crisanti da un anno), curiosamente poi affermano: «Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità».
I due filosofi sono preoccupati delle conseguenze del vaccino, quindi del futuro e lo sono perché questi vaccini sono stati testati per poco tempo.
Il tempo, quindi, angoscia Cacciari e Agamben: verrebbe da chiedersi, allora, quant’è la durata minima che ridurrebbe l’angoscia da incertezza sugli effetti. Un anno, due, tre? E chi la deciderebbe: le case farmaceutiche, lo Stato, il popolo? Chi ha tale potere ansiolitico tra i soggetti sociali?
I due heideggeriani nostrani, insomma, provano angoscia e vorrebbero fuggirla e ritrovare una perduta libertà, anche se per il loro maestro l’angoscia non è un sentimento negativo, anzi è il sentimento che rivela la nostra finitezza, la verità di noi stessi, e che in ultima istanza ci libera.
Spiace, allora, vedere come anche nelle menti migliori l’incertezza generi mostri.
[1] B. Pascal, Pensieri, traduzione e cura di Chiara Vozza, Guaraldi, Rimini 2012, ebook.
[2] M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005.
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