Nel pensiero (sbagliato) comune rispetto alla politica degli ultimi anni, c’è l’idea, ahimè alimentata anche da alcuni giornalisti, che da più di dieci anni gli italiani non possano, a causa dei poteri forti, né votare, né eleggere il presidente del consiglio. In realtà abbiamo votato, tra politiche, europee, amministrative e referendum, più di 10 volte negli ultimi 13 anni, quasi una volta l’anno. Inoltre, il presidente del Consiglio in Italia non viene mai eletto, giacché siamo una repubblica parlamentare. Il popolo sovrano elegge il parlamento, il quale elegge il presidente della Repubblica, il quale nomina il presidente del Consiglio. Quello che è capitato negli ultimi anni è un’altra cosa, cioè la fine di quella fase politica iniziata dopo Tangentopoli nel 1994, comunemente chiamata bipolarismo, con da un lato il centrosinistra di Prodi e dall’altra il centrodestra di Berlusconi. A porre fine a questa fase è stato l’avvento di un terzo soggetto politico, il Movimento 5 Stelle, il quale, non schierandosi né a destra, né a sinistra e non riuscendo mai a superare da solo il 40%, ha creato la fase di instabilità e di alternanza di diversi premier dal 2013 ad oggi. Ma, essendo in democrazia, il vero problema non è la nascita di un nuovo soggetto politico, bensì la legge elettorale, che impedisce di formare un governo se non si supera il 40%, ma che non è chiara sulle alleanze, le coalizioni, e non dissipa il rischio di ribaltoni. Ecco perché, assieme a cannabis legale, eutanasia, caccia e riforma giustizia, temi importantissimi su cui, soprattutto i primi due (sulla giustizia mancano oggettivamente le competenze), è bello che sia il popolo ad esprimersi, movimenti e associazioni dovrebbero raccogliere firme per una legge elettorale che, in vista delle prossime elezioni politiche, ormai molto vicine, permetta di avere un esito chiaro dopo il voto, senza che si debba più parlare di inciuci o presidenti non eletti.
Una riforma costituzionale è troppo complessa e spinosa da proporre in breve tempo (si vota ufficialmente nel 2023, ma nel 2022 la rielezione del presidente della Repubblica potrebbe portare a una nuova instabilità e al voto anticipato), ma basterebbe riaprire il discorso interrotto nel 2016 con il referendum costituzionale proposto da, e purtroppo identificato con, Renzi. Senza modificare la Costituzione si potrebbe introdurre il secondo turno con ballottaggio. Facciamo degli esempi. Nel 2013 la coalizione di centrosinistra arrivò prima senza vincere, fermandosi al 29,55% alla Camera e al 31% al Senato, tallonata dalla coalizione di centrodestra che prese poco meno. Terzo ‘classificato’ il Movimento 5 Stelle, che senza nessuna alleanza prese da solo circa il 25%. La legge elettorale non premia né la prima coalizione, né il primo partito, e così per formare un governo fu necessario ricorrere al metodo tedesco della grosse Koalition. Il PD come sappiamo chiese l’appoggio del M5S che rifiutò e allora si prese con sé un pezzetto del centrodestra e riuscì ad ottenere una maggioranza che durò fino a fine legislatura. Nel 2018 accadde in forma diversa la stessa cosa: il primo partito fu il M5S con circa il 32%, la prima coalizione fu il centrodestra a trazione leghista con circa il 37%. Anche in questo caso la legge non consentiva a nessuno di formare un governo con quei numeri e il Movimento si rifiutava di governare con Berlusconi. Come sappiamo, per sciogliere l’impasse la Lega uscì dalla coalizione e formò il cosiddetto governo gialloverde. Poi uscì e al suo posto entrò il PD. Nel frattempo Renzi uscì dal PD e si fece il suo partito e con il suo 1 virgola qualcosa, Italia Viva riuscì a costringere Conte, l’avvocato del popolo super partes (perché dire tecnico, nel senso di esterno al parlamento rinnovato post elezioni, pareva brutto) scelto dal Movimento, a dimettersi a favore di Draghi, un tecnico, il cui governo di fatto è sostenuto sia dal M5S che da Forza Italia, cosa impensabile solo tre anni fa. Se ci fosse stato il secondo turno con ballottaggio nel 2013 gli italiani sarebbero stati chiamati a scegliere tra Bersani e Berlusconi e uno dei due avrebbe governato senza bisogno di ribaltoni.
Nel 2018 il ballottaggio sarebbe stato tra Di Maio e Salvini. Nel 2023 potrebbe essere tra Conte e Salvini (o Meloni). Attualmente secondo i sondaggi il centrodestra vincerebbe con circa il 47% superando la soglia prevista per legge e potendo governare con un’ampia maggioranza senza. Ma da qui a un anno o due le incognite sono tante: Salvini e Meloni che litigano per la leadership, il disagio di un partito moderato come Forza Italia rispetto al sovranismo di Lega (ormai a corrente alternata) e soprattutto di Fratelli d’Italia, la nascita di un nuovo polo centrista, una convincente campagna elettorale da parte di PD e M5S. L’instabilità è dietro l’angolo e una nuova legge elettorale potrebbe scongiurarla. Ma gli italiani sono distratti da altro e potrebbero presto tornare a lamentarsi del presidente non eletto.