Milioni di italiani, negli ultimi secoli, sono emigrati in territori diversi da quelli dove erano nati. L’emigrazione è, quindi, una storia fondamentale per il nostro paese (qui tutte le puntate di “Canzoni che raccontano la Storia“). È una storia, anzi un insieme di storie individuali e collettive, che tendiamo talvolta a dimenticare o ad avvolgere con narrazioni edulcorate per dimostrare la differenza che ci sarebbe tra chi oggi arriva nel nostro paese da terre lontane e gli italiani che migravano all’estero o che si trasferivano da un sud abbandonato e sempre più povero verso le fabbriche del nord del nostro paese. Lo facevano soprattutto per ricercare un futuro migliore. Scappavano dalla miseria e dalla fame, dai “feudi” dei latifondisti (il riferimento è alla poesia di Ignazio Buttitta richiamata nell’articolo della settimana scorsa), da condizioni di vita insostenibili, da uno sfruttamento spaventoso. Lo facevano con speranze e sofferenze non troppo dissimili da quelle che provano gli immigrati che arrivano nel nostro paese dopo aver rischiato la vita.
Anche noi italiani eravamo discriminati, trattati come “esseri inferiori”, ridotti a svolgere i lavori più umili, vilipesi, massacrati. Si ricordi la vicenda di Sacco e Vanzetti, anarchici italiani giustiziati innocenti, per avere un’idea di cosa significasse essere immigrati italiani negli Stati Uniti. Ecco, è giusto ricordare cosa dovettero subire i nostri fratelli e le nostre sorelle in paesi stranieri, nelle fabbriche, nei cantieri, nelle miniere. Un esempio per tutte è cosa successe a Marcinelle in Belgio nel 1956 quando centinaia di minatori (in gran parte emigrati italiani) persero la vita.
Le canzoni, la cultura popolare dei cantastorie, le poesie in musica di nostri autori anche di successo raccontavano queste storie di miseria e lontananza, di sfruttamento e dolore. Di nostalgia e smarrimento di fronte alla solitudine che, necessariamente, prende chi ha lasciato la propria “casa” per cercare altrove un futuro che, spesso, si dimostra inesistente.
Da qua vorremmo partire per segnalare alcune canzoni che di questo si sono interessate.
La prima è una canzone che ha quasi cento anni. È stata scritta nel 1927(1) ed è stata portata al “successo” da Luciano Tajoli e Claudio Villa nell’immediato dopoguerra. Si intitola “Miniera” e, quella che proponiamo è la versione recente di Riccardo Tesi e Banditaliana (video in copertina, qui il testo). È la storia di un disastro minerario e dell’altruismo di un emigrato italiano che salva decine di vite, ma non la sua. La caratteristica di questa canzone è la sensazione di solitudine e di abbandono di questo “eroe” che si immola perché i suoi affetti, la sua vita, sono rimasti troppo lontani per poter essere anche solo ricordati senza provare dolore. Straordinaria è il verso nel quale si dice che la canzone dell’emigrante è quella dell’esiliato. O il verso “io andrò laggiù che non ho nessuno”. Il minatore “dal volto bruno” era un esiliato solo che aveva cercato un futuro e invece ha trovato tutt’altro. La scelta di immolarsi per altri era, forse, l’unica possibile per sentirsi parte i qualcosa. Gli ultimi versi, colmi di rimpianto per ciò che si è lasciato, sono espliciti: “Cielo di stelle, cielo color del mare, tu sei lo stesso cielo del mio casolare. Portami in sogno verso la Patria mia, portale un cuor che muore di nostalgia … “
Ma l’emigrazione non è stata solo verso paesi stranieri e terre lontane. Quella interna al nostro paese, principalmente dal Sud verso le fabbriche del Nord portava anch’essa smarrimento, nostalgia, discriminazioni, sfruttamento. Su questa emigrazione interna alla ricerca di un lavoro e il conseguente “benessere” esistono molte canzoni. Alcune sono molto esplicite, altre raccontano lo smarrimento di chi arriva in una società diversa e spesso ostile.
La scelta di ascolto cade su tre brani.
Il primo è di Luigi Tenco, la sua ultima canzone interpretata in quel festival di Sanremo del 1967 ricordato per la sua tragica morte. Il titolo è “Ciao amore ciao” (di seguito il video, qui il testo). Una canzone apparentemente d’amore che descrive i sentimenti e la delusione di chi emigra alla ricerca di qualcosa di diverso e migliore dove, però, ci si perde tra mille strade grigie come il fumo in un mondo di luci dove ci si sente nessuno e alla fine si accorge di “Non saper fare niente in un mondo che sa tutto e non avere un soldo nemmeno per tornare”.
La seconda canzone è scritta da Lucio Dalla con i versi del poeta Roberto Roversi. Fa parte del disco “Il giorno aveva cinque teste” del 1973 e si intitola “L’auto targata TO” (di seguito il video, qui il testo). Descrive il ritorno a Torino su un’automobile “sgangherata” di una famiglia emigrata dal sud. I versi sono molto espliciti di una vita ingessata in un ghetto “ammuffito, spaccato con terra e sassi dentro a un filo spinato” vicino a un “luogo del cielo” chiamato Torino con “lunghi e grandi viali e splendidi monti di neve” dove “sono condannati i terroni a costruire per gli altri appartamenti da cinquanta milioni …”
La terza è una canzone di Ivan Della Mea, interpretata dal veneziano Gualtiero Bertelli e si intitola “Con la lettera del prete”. (di seguito il video, qui il testo)
Racconta di un “terrone” che va a lavorare a Milano in un cantiere grazie a una raccomandazione. È una canzone che parla di un infortunio sul lavoro. Uno dei tanti che avvengono ancora nel nostro paese e che sarà oggetto della prossima Storia che viene raccontata da canzoni popolari.