Il caso Cospito rimette al centro la questione delle istituzioni totali: carcere, 41bis, manicomi, scuole militarizzate. Anzichè educare lo Stato preferisce reprimere, sorvegliare e punire.
Che il problema delle nostre istituzioni statali, come afferma la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in questo preciso momento della storia repubblicana sia costituito dalla galassia anarco-insurrezionalista e dall’urgenza di far permanere Alfredo Cospito al regime duro del 41bis sembra davvero un modo alquanto grottesco per distogliere l’attenzione dal fatto che quello stesso Stato si sia lasciato sfuggire per trent’anni un criminale mafioso come Matteo Messina Denaro, sebbene poi lo stesso fosse da sempre nel suo paese a poltrire tra amanti, palestra e vita sfarzosa.
Tuttavia, l’agenda setting del giornalismo cartaceo e televisivo del nostro Paese offre all’opinione pubblica unicamente questo scenario, farcito anche da tendenziose bagarre tra parlamentari che si infervorano, quasi seriamente interessati alla questione. E mentre l’opinione pubblica prende parte al dibattito e perlopiù si schiera in favore di un giustizialismo duro e crudo per Alfredo Cospito, generato ad hoc dai nostri cronisti d’assalto, le vicende legate all’incredibile latitanza di Matteo Messina Denaro lentamente scompaiono dalla scena, eclissando mediaticamente la vergognosa vicenda della cattura tardiva del boss, per la quale non c’era davvero nulla da esultare.
Ora, è proprio questo regime, definito Infocrazia[1] da Han, in cui l’apparente libertà di informazione dei soggetti è, di fatto, nelle mani di pochi cartelli che gestiscono i dati e le notizie che i media diffondono, che desta particolare preoccupazione. Siamo all’interno di un sistema infocratico tendente alla distrazione di massa, mentre alla distruzione di massa ci siamo lentamente abituati, al punto che anche la guerra non costituisce più una notizia da documentare con angoscia, ma uno spettacolo da esibire con Zelensky in kermesse come il Golden Globe e il Festival di Sanremo.
Ed è evidente, almeno dalla gestione della pandemia in poi, che le istituzioni dello Stato liberale siano in palese regressione nella gestione del potere. Tale evidenza è lampante nell’uso sempre più massiccio che lo Stato fa della forza, dei militari, di ogni forma di dispositivo di sorveglianza per reprimere e condannare all’isolamento. Si tratta di una stigmatizzazione che riguarda non tanto la criminalità che agisce contro la società civile, ma il dissenso, la diversità, la devianza, l’anormalità che albergano da sempre nell’ambito della stessa società e che avrebbero bisogno di approcci educativi non repressivi.
Dopo una prima fase illuministica europea, con Cesare Beccaria soprattutto, tesa a mettere in crisi l’assurdità della pena di morte, abolita per la prima volta nel Granducato di Toscana nel 1786, c’è stata negli anni ’70-’80, con uno strascico negli anni ’90, una seconda interessante ventata di novità nella gestione della diversità e della devianza. L’inversione di tendenza rispetto alla concezione punitiva dello Stato è avvenuta sulla scorta delle considerazioni di filosofi e sociologi come Michel Foucault e Erving Goffman, ma anche di giuristi e medici, come l’italiano Franco Basaglia. Essi affermavano che quando la politica si trova in condizioni di evidente deficit di democrazia e di gestione del potere, diventa molto più agevole utilizzare la forza e la disciplina per militarizzare la società mediante istituzioni totali, come il carcere, il manicomio, il centro per disabili, il campo di concentramento, la caserma, il convento.
L’iniziativa ostinata dello psichiatra italiano Franco Basaglia condusse in maniera del tutto pionieristica nel 1978 alla chiusura delle istituzioni manicomiali (Legge 180/1978), nella convinzione che l’approccio medicalizzante e reclusivo non fosse di alcun aiuto al paziente psichiatrico. Un approccio umanizzante, invece, che derivava a Basaglia dalla sua vicinanza alla filosofia esistenzialista e fenomenologica, sarebbe stato molto più proficuo.
Analogamente pionieristica fu l’idea di praticare una completa integrazione sociale con agevolazioni e sussidi per le persone con disabilità (Legge 104/1992). L’effetto più immediato di tale iniziativa fu quello di aprire le scuole, i luoghi di lavoro e le istituzioni ad ogni tipo di disabilità, perseguendo integrazione e inclusione, ma soprattutto ritenendo che la socializzazione e la solidarietà fossero i grimaldelli per l’educabilità, avviando processi di crescita intellettuale, spirituale, morale e civile, proprio nel solco che aveva aperto la Legge 180/1978.
Altrove si è tentato di riformare il carcere, che resta sempre una struttura rieducativa, come è accaduto in Francia con il progetto “Respecto”, in cui si è affidata ai detenuti la chiave della propria cella. Si tratta di un percorso il cui scopo «è quello di preparare i detenuti alla vita fuori dal carcere», afferma Marie-Rolande Martins, direttrice del servizio penitenziario. Non deve stupire, quindi, se alcuni ricercatori propongano di Abolire il carcere[2] per la sicurezza dei cittadini, considerando che in Francia e in Inghilterra solo il 24% dei condannati va in carcere, mentre in Italia l’82%, ma poi i casi di recidiva sono molto più alti in Italia rispetto agli altri paesi.
Ma, evidentemente, la direzione presa dal nostro Stato è un’altra: non si è più capaci di pensare a progetti di educabilità dell’essere umano, forse perché la classe politica ormai non è più tanto educata ed istruita, per cui si allinea, anche elettoralmente, alla popolazione, che istintivamente chiede giustizia e vendetta. L’idea che l’educazione morale e civile possa aiutare i soggetti a cambiare è definitivamente tramontata, così come è tramontata l’idea che la scuola sia un luogo di formazione e crescita intellettuale. Sempre più spesso la scuola è investita di compiti che non le competono, come l’avviamento al lavoro, i PCTO, la lenta e ostinata militarizzazione con la quale si portano, addirittura, 350 studenti di sette istituti superiori siciliani nella base militare di Sigonella per svolgere l’alternanza scuola-lavoro.
Ecco, davanti all’enorme distrazione di massa inscenata dai media, assistiamo attoniti a questa pressante operazione di sorveglianza e repressione dilagante, non solo mediante le manganellate agli studenti scesi in piazza, gli stessi che si cerca di rieducare attraverso la mini naja proposta da Ignazio Larussa, ma anche attraverso il regime del 41bis, giudicato da Amnesty International «crudele, inumano e degradante», così come attraverso la presenza di campi di concentramento moderni per immigrati e clandestini (CARA, CPT) e l’esistenza di piccoli lager in vecchie strutture psichiatriche, regredite a istituzioni manicomiali, come emerge dall’inchiesta della procura di Foggia in relazione all’Istituto «Don Uva» di Bisceglie (BT), in cui sono ospitati 400 ortofrenici.
Ridare peso all’educabilità degli esseri umani è il frutto di una precisa, lungimirante e coraggiosa scelta politica. Dipende da questa opzione il destino delle nostre istituzioni, della scuola e dell’intera società civile e si tratta, oggi più che mai, di una scelta necessaria per evitare qualsiasi forma di stanchezza esistenziale nonchè per scongiurare l’ennesimo conflitto mondiale che si preannuncia con soluzioni nucleari definitive.
[1] Byung-Chul Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, Torino 2023.
[2] S. Anastasia, V. Calderone, L. Manconi, Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Chiarelettere, Firenze 2022.
Qui troverai tutti i contributi a Agorà, la Filosofia in Piazza
a cura di Michele Lucivero
Qui la pagina Facebook Agorà. Filosofia in piazza