Di seguito l’intervista pubblicata dal giornale Libero a Piero Sansonetti
«Non sorprende, almeno a me, che i grandi giornali siano agli ordini – non subalterni, ma agli ordini – dei pm. A me sorprende il silenzio, che su questa vicenda non sia uscito nulla: la notizia è questa. Eppure dentro ci sono i nomi più prestigiosi». Questa è la premessa da cui parte Piero Sansonetti, direttore del Riformista, prima di entrare nel merito della “vicenda”. Ovvero i nomi dei giornalisti che compaiono nelle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia nell’ambito dell’inchiesta sul cosiddetto “caso Palamara“, dal nome del pm romano indagato in Umbria per corruzione. «Insomma», dice Sansonetti, che ieri sul suo quotidiano ha scritto un editoriale al vetriolo sul caso (titolo: «È esplosa giornalistopoli ma i giornali la ignorano»), «per anni questi giornalisti, e i loro giornali, si sono limitati a firmare le intercettazioni in arrivo dalle procure e adesso, solo perché c’è il loro nome, tacciono? A me non interessa, ma loro – che vivono di relata refero – dovrebbero pubblicarle».
E invece non lo fanno. Perché?
«Perché sono una casta. Proprio come i magistrati: sono due facce della stessa medaglia. Perché il giornalismo italiano dal 1992-’93 ha smesso di esistere, accettando una sorta di vassallaggio nei confronti dei pm. L’indipendenza non esiste: i giornalisti giudiziari sono agli ordini del partito dei pm».
Il biennio 1992-’93 è quello di Tangentopoli: un caso?
«Ovviamente no. Lì si è aperta la ferita e saldato l’asse con i pm. È allora che nasce il “pool” dei giornalisti che segue le inchieste di Mani pulite. Il contrario di ciò che dovrebbe essere: alla faccia della concorrenza tra colleghi, tutti insieme si mettono agli ordini dei magistrati. E da allora la situazione è peggiorata».
Qualcuno potrebbe obiettare: è giornalismo d’inchiesta.
«È inchiesta pubblicare le carte delle procure e dei Servizi segreti? Quando ero più giovane c’erano le famose buste gialle. Chi le riceveva era guardato con diffidenza. Erano le cosiddette “veline”. Oggi chi fa lo stesso con le carte delle procure è considerato il re del giornalismo».
Veniamo al “caso Palamara”. Quale intercettazione l’ha colpita di più?
«Almeno due. In una Palamara e il vicepresidente del Csm dell’epoca, Giovanni Legnini, discutono su come “orientare” La Repubblica. E lo fanno con grande naturalezza, come se il mestiere della magistratura fosse quello di determinare la linea di un quotidiano. Perché questa intercettazione, da parte degli stessi giornali che da anni accettano le veline dei pm, non è stata pubblicata?».
E l’altra?
«Quella in cui Palamara avanza il sospetto che un illustre giornalista sia legato ai Servizi segreti. Cosa sarebbe successo se un’intercettazione simile avesse riguardato un politico, ad esempio Gualtieri o Salvini? Sarebbe venuto giù l’iradiddio. Invece qui, silenzio».
Nelle carte ci sono le firme giudiziarie di Corriere della Sera, Repubblica e Stampa…
«Giornalisti che comandano sui direttori, sugli editori e sugli altri giornalisti. Il giornalismo politico, ad esempio, ha accettato l’umiliazione e la subordinazione. Con i “giornalisti giudiziari” il giornalismo è morto, ha smesso di esistere perché non è più indipendente: è al servizio del partito dei pm».
Qual è l’obiettivo di questo partito?
«Il potere. Anche se adesso, come succede a tutti i partiti, è scosso da fratture e lacerato da divisioni interne, come dimostra il “caso Palamara”».
E i leader chi sono?
«Marco Travaglio, Nino Di Matteo, Nicola Gratteri e Piercamillo Davigo. Il giornalismo è loro succube, come prima del 1992 era succube di Dc e Pci. Con una precisazione: allora i giornalisti erano un poco più indipendenti».
Sul Riformista ha scritto che le «grandi campagne moralizzatrici» anti-politica portate avanti sui giornali sulla scorta delle veline delle procure hanno armato il braccio del M5S.
«Come accadeva ai tempi del Pci, i gruppi parlamentari sono il semplice nucleo operativo. I capi sono altrove. Travaglio, ad esempio, è uno dei capi. Gli altri, come diciamo a Roma, “so’ ragazzi”».
Il direttore del Fatto Quotidiano non le è proprio simpatico…
«Il silenzio su questa vicenda dimostra che Travaglio ha imposto la sua legge alla maggioranza degli altri giornali italiani. Del resto sono oltre dieci anni che lo inseguono».