Cento anni fa nasceva Giovanni Paolo II, «Un maestro dei popoli».

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“Un maestro dei popoli”, la cui autorevolezza ha contribuito a cambiare la storia della Chiesa e del mondo. Così padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, definisce Giovanni Paolo II, nel centenario della sua nascita, che Papa Francesco celebrerà il 18 maggio con una messa davanti alla sua tomba. Lo abbiamo intervistato.

Lei ha vissuto a servizio di tre papi, prima da direttore di Radio Vaticana e poi da direttore della sala stampa della Santa Sede. Che ricordo personale ha di Giovanni Paolo II?
«Ho seguito tutto il pontificato di Giovani Paolo II. Fin da quando ero un giovane redattore di Civiltà cattolica, mi ha sempre colpito l’impegno e l’attenzione che metteva nel vivere il primo papato non italiano dopo tanti secoli. Quando poi l’ho accompagnato più da vicino come collaboratore di alcuni servizi in Vaticano nel 1991, a metà pontificato, sono stato subito impressionato dalla sua grandissima personalità, dal suo modo di fare nei rapporti personali. Ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un gigante, dal punto di vista spirituale e umano, ad una personalità che avrebbe lasciato un segno profondo nella storia. Mi ha colpito profondamente per la sua autorevolezza e per la consapevolezza con cui portava avanti la sua missione, fedele alla profezia del card. Wyszinski: “Devi accompagnare la Chiesa nel terzo millennio”. Giovanni Paolo II aveva un senso molto profondo della storia: il grande Giubileo del 2000 è stato per lui così importante perché era la storia dell’umanità che incontrava la redenzione di Cristo, e quindi era giusto dare a tale avvenimento un giusto rilievo. Il suo pontificato è stato sconfinato nel tempo: è stato eletto molto giovane, e per lui era la conferma che era stato chiamato a svolgere un ruolo estremamente importante per l’attuazione del Concilio, per affrontare i problemi dell’umanità e superare la grande divisione del mondo in due blocchi, ma sempre in una dimensione di fede. L’altro tratto che mi ha molto colpito di Giovanni Paolo II è il suo essere un uomo di fede e di preghiera. Non aveva il minimo dubbio sul fatto che doveva vivere la sua vocazione davanti a Dio e in un rapporto profondo con lui. Basti pensare alla sua orazione profonda, all’intensità della sua preghiera davanti al Santissimo ogni volta che in viaggio entrava in una chiesa. Le sue profonde meditazioni poetiche del “Trittico Romano”, nella Cappella Sistina, quando parlava dell’esperienza di Dio come “primo vedente”, non erano parole, ma esperienza vissuta: Giovanni Paolo II sentiva la sua vocazione a servizio della Chiesa e dell’umanità, da svolgere costantemente sotto lo sguardo di Dio e chiamato da Dio. L’aver subito un attentato già all’inizio del pontificato è la manifestazione che era al centro delle grande vicende spirituali, della lotta tra il bene e il male, e che la sua vita era considerata un rischio da chi temeva per il suo servizio alla fede, alla libertà e alla pace del mondo. Era consapevole di avere una grande responsabilità storica, ma vissuta come una vocazione. E questo ha sempre provocato in me, come in milioni di persone nel mondo,  ammirazione e di gratitudine.

“Non abbiate paura”, le prime parole pronunciate dopo l’elezione al soglio di Pietro. Karol Wojtyla è stato il Papa del coraggio, anche nell’affrontare fino in fondo, sotto gli occhi del mondo, la malattia che poi l’ha portato alla morte. Una testimonianza, la sua, che sembra acquistare ancora più significato oggi, davanti alla pandemia che stiamo vivendo…
«La sofferenza è stata qualcosa che l’ha toccato, con l’attentato, con il tumore all’intestino che poi è stato curato e negli ultimi anni con il Parkinson. Ma Giovanni Paolo II è sempre stato vicino ai malati. Nelle visite che faceva, anche quando stava bene, voleva stare sempre con i malati, salutarli uno per uno, facendo saltare i tempi e i programmi stabiliti. Il tempo così prolungato come persona inferma, nell’ultima parte della sua vita, ha posto anche domande sul fatto se in queste condizioni potesse svolgere bene il suo ministero. Io credo, però, che questo sia stato un elemento di grandezza del suo magistero: in un pontificato così sconfinato, il fatto che ci fosse un tempo molto ampio in cui il Papa polacco ha vissuto l’infermità non era sproporzionato, ma proporzionato al peso che la sofferenza ha nell’esperienza umana. Tantissime persone intorno a noi vivono un’esperienza prolungata di malattia. Tutto ciò – posso testimoniarlo personalmente dai messaggi che ho ricevuto – ha provocato l’ infinita gratitudine di innumerevoli anziani e malati, confortati dal fatto che il Papa fosse con loro e come loro. La sua umiltà e il coraggio nel vivere la sofferenza sotto gli occhi del mondo non è stata mai un’esibizione, ma ha permesso ad una immensa comunità di partecipare con la sua vicinanza alla sofferenza del Papa vissuta nella fede. Le tre immagini della Via Crucis in cui Giovanni Paolo II abbraccia la Croce davanti alle ultime stazioni rimarranno un segno indelebile nella mia memoria».

Giovanni Paolo II ha compiuto più di 100 viaggi apostolici intorno al mondo, e lei è stato al suo fianco. Che cosa porta con sé, in particolare, di quei viaggi?
«È stato Paolo II a inaugurare la prassi dei viaggi apostolici, ma Giovanni Paolo II grazie alla forza della sua età ne ha fatto una delle vie più importanti del suo servizio alla Chiesa universale e all’annuncio del Vangelo. Nei suoi oltre 100 viaggi all’estero, a cui vanno aggiunti quelli in Italia e a Roma, non è stato mai ripetitivo: ogni viaggio era diverso e si presentava come qualcosa di nuovo. Anche i viaggi che si prospettavano più difficili e che lui ha voluto comunque fare sono stati, alla prova dei fatti, un’occasione di grazia. La sua testimonianza e il suo carisma nella comunicazione erano capaci di attrarre la gente dei più diversi angoli del mondo. Dei suoi viaggi mi sono rimasti impressi soprattutto quelli avvenuti negli Anni Novanta, dopo la Caduta del Muro di Berlino, nei Paesi dell’Europa centro-orientale.
Si mostrava come un “maestro dei popoli”, con una grandissima autorevolezza: ogni volta parlava ad un popolo diverso chiamandolo ad una vocazione rinnovata nella libertà, che veniva dalla sua identità. Aveva un senso della grande dignità di ogni popolo e lo sfidava a ritrovare il valore della sua testimonianza storica, religiosa e culturale. Non ho mai visto né in una persona, né nei miei studi, una personalità così autorevole nell’evangelizzazione portata avanti all’insegna della dignità, dell’identità e della vocazione che ogni popolo è chiamato a dare per costruire la “famiglia dei popoli”, come ha definito l’umanità nel suo discorso all’Onu. Ogni popolo ha la sua identità a cui può attingere per contribuire al cammino comune dell’umanità. Il modo in cui Giovanni Paolo II riusciva a dirlo, a farlo capire ai popoli che avevano recuperato la loro libertà dopo l’oppressione era unico: è il modo in cui lui stesso aveva vissuto la storia della Polonia, della sua patria. Non solo l’ha vissuto per la Polonia, ma ci ha aiutato a viverla anche con tutti gli altri popoli che ha incontrato».

Nel 1985 Giovanni Paolo II ha inaugurato la prassi delle Giornate mondiali della Gioventù. Aveva una particolare sintonia, ricambiata, con i giovani, ma non faceva sconti, anzi li chiamava alla “misura alta” della vita cristiana. Ce n’è ancora bisogno, 35 anni dopo?
«Si vedeva che era un papa che aveva vissuto personalmente la pastorale con i giovani, già da giovane sacerdote in Polonia. Sapeva cosa vuol dire andare in canoa, fare campeggio, andare in montagna con i giovani. La sua genialità lo ha portato a inventare le Giornate mondiali della Gioventù, che sono state una proposta forte proprio perché i giovani lo capivano e lo percepivano come qualcuno che entrava nelle loro vite sapendo cosa fosse l’età giovanile, l’epoca della scoperta del proprio posto del mondo, con le infinite possibilità di servizio insite in essa. Giovanni Paolo II faceva ai giovani sempre grandi proposte, impegnative dal punto di vista umano, morale e religioso. Questo è il modo di fare pastorale con i giovani: proporre loro grandi cose, non limitarsi ad orizzonti bassi, banali o superficiali. Sapeva dirlo con impegno e convinzione, e i giovani si sentivano incoraggiati: tutti apprezzavano il suo messaggio e capivano di essere chiamati al rispetto per loro stessi, ad essere all’altezza della loro dignità e delle proprie potenzialità. Per questo Giovanni  Paolo II è stato un modello per generazioni di giovani, che sono cresciuti con lui e rimasti legati a lui. La prassi delle Gmg è stata poi ripresa dai suoi successori: Benedetto XVI si è inserito nel cammino delle Giornate ammirando e riconoscendo in esse un’occasione di vitalità molto importante per la Chiesa, e Francesco ha portato avanti questo filone, arrivando ad un Sinodo a loro dedicato.

Karol Wojtyla è stato un papa, poi diventato santo, che ha cambiato il volto della Chiesa ma anche la storia, contribuendo in maniera decisiva all’abbattimento dei muri, non solo sul piano ecumenico ed interreligioso ma anche geopolitico. Cosa resta oggi della sua eredità?
«Giovanni Paolo II è stato un grande annunciatore di libertà, pace e dignità che ha agito in profondità nelle situazioni concrete della storia del suo tempo, in particolare quella dei popoli oppressi dai regimi dell’Est. Ma il suo messaggio si è allargato ai popoli africani, che lo chiamavano “fratello”, e a tutti i popoli che incontrava. La sua grande autorevolezza globale ha fatto sì che il numero dei Paesi che hanno chiesto di allacciare rapporti diplomatici con la Santa Sede è stato impressionante. È stato un pastore dell’umanità nel suo insieme, la cui attenzione globale si dimostrava anche nell’uso delle lingue locali. Ha svolto un grande ruolo con coraggio, sia con la sua opera per la pace del mondo e per il dialogo interreligioso – basti pensare al grande incontro di Assisi – sia nella sua opposizione a tutte le guerre, che sono sempre un modo falso e sbagliato per cercare una soluzione ai problemi».