Forse per uno strano effetto collettivo di “tachifilassi”, il fenomeno con cui in medicina si definisce la rapida assuefazione agli effetti di un farmaco, il tema del pluralismo in televisione sembra scomparso da tempo, evaporato insieme alla leadership dell’ex Cavaliere. È come se non esistesse più per l’opinione pubblica e la politica.
Eppure dietro l’apparente equilibrio spartitorio della telepolitica secondo l’aberrante logica del “panino”, si nasconde la realtà di un pluralismo ridotto a puro simulacro, una clamorosa disparità di racconto che vede il leader della Lega enormemente sovraesposto rispetto agli altri. È così da più di un anno: se da giugno a settembre del 2018 Salvini era comparso nei tiggì e nei programmi d’informazione per oltre cento ore, surclassando tutti di parecchie lunghezze, gli ultimi numeri dell’Agcom ci dicono che da luglio a ottobre di quest’anno ha ottenuto 101 ore di parlato, più del premier Conte (che si ferma a 90), tre volte più di Di Maio a 36, per non dire di Zingaretti che sta a 29.
Distanze siderali, ingiustificabili da un punto di vista di par condicio nell’era della politica personalizzata. La spiegazione di ciò è presto detta. Al di là di un apparente equilibrio dei tempi di parola concessi alle forze politiche (quando c’è, e vedremo che così non è), accade che per la Lega parli quasi sempre e solo Salvini, mentre per gli altri partiti i rispettivi leader sono affiancati da una teoria di esponenti che declarano, spesso noiosamente, la loro ricetta senza nessun appeal. Il risultato è di alimentare presso gli spettatori la sensazione che da una parte ci siano idee chiare e nette impersonate da un leader forte e dall’altra un vacuo chiacchiericcio senza capo né coda. Non ci vuole molto a capire, se così stanno le cose, come il pluralismo rimanga solo sulla carta visto che di fatto il monologo salviniano rafforza l’immagine del leader del Carroccio oltre ogni ragionevole misura.
Le tabelle dell’Agcom di ottobre attestano ancora una volta il pessimo stato di salute della telepolitica e più in generale dell’informazione tv: nei telegiornali delle sette reti generaliste Salvini ha parlato per 131 minuti, tutti i democratici messi assieme poco più di 90 (di cui 43 Zingaretti); mentre Di Maio ha parlato per 104, Berlusconi per 101 (di cui 84 solo su Mediaset), la Meloni 50, Renzi 49. Nei programmi d’informazione e nei talk Salvini colleziona nell’ultimo mese oltre 13 ore di parlato, seguito da Renzi con 6 ore, meno della metà; la Meloni è a 5 ore e mezzo, Di Maio a poco più di 4. Zingaretti invece è lontanissimo: 2 ore e mezza (di cui 2h e 5’ su La7). Non solo. Che l’irrisolta questione televisiva sia una fondamentale questione politica democratica ce lo ricorda la totale faziosità delle reti Mediaset, certificata nel tempo dalle rilevazioni dell’Authority.
È inconcepibile lo spazio che queste reti riservano al loro proprietario e più in generale alla destra, in spregio non solo alla corretta informazione ma anche solo al bon ton. Come si evince dai dati di ottobre Forza Italia continua a godere di una copertura inverosimilmente partigiana. Sul principale tg del gruppo, il Tg5, che è poi dopo il Tg1 il principale organo d’informazione degli italiani, Forza Italia gode di un quinto del parlato complessivo (il doppio dei 5Stelle, il quadruplo del Pd) ed insieme alla Lega e Fratelli d’Italia si prende quasi la metà del tempo di parola! Nel complesso delle reti Mediaset la copertura per il centrodestra è quasi al 40%.
Numeri inaccettabili (soprattutto se si considera che nel mese di ottobre si è svolta la competizione elettorale in Umbria) tenendo conto che la pur discussa regola del “panino” ha sempre riservato all’opposizione al massimo il 25%-30% della copertura giornalistica (con gli altri due terzi al governo e alla maggioranza) e che la stessa Mediaset in passato con governi “amici” non ha tenuto lo stesso atteggiamento.
Non ci si può esimere, in chiusura, da un’ultima osservazione: ad ottobre Salvini è andato da Vespa, complice il duello con Renzi, per tre settimane di fila, e del resto a Porta a Porta, programma dove nessun altro politico gode della sua visibilità, lui è di casa non da oggi. Insomma ci pare che in tutto ciò non c’è chi non veda un serio problema per lo svolgersi equilibrato del dibattito pubblico: un problema che l’Authority, e se vogliamo anche il governo mettendo mano (sarebbe ora) ad una seria riforma del sistema, devono quanto prima affrontare.